#ValorePubblico

Quelli tra ordinamento e realtà

Mentre seguivo la discussione sui risultati di una ricerca SDA Bocconi su semplificazioni e tempi del “permitting” nell’ambito del PNRR Lab, ho ripensato a tre conversazioni che negli ultimi giorni mi hanno portata a riflettere su un tema che in sintesi potrei riassumere così: è la realtà che deve adattarsi alle norme o il contrario? Andiamo per ordine.

 

 

La prima si è svolta nell’ambito di un giorno di lezioni all’Executive MBA sul tema della collaborazione tra pubblico e privato e delle logiche di gestione di aziende ibride, coordinato dalla collega Veronica Vecchi e riguarda la discussione del caso della costruzione del Ponte San Giorgio a Genova in meno di due anni. Un aspetto che emerge con chiarezza è che più che i tempi di costruzione – rapidissimi anche alla luce del fatto che si sono svolti in piena prima ondata Covid – sono stati chiaramente fuori scala i tempi che hanno portato dalla decisione di realizzare il ponte all’affidamento dei lavori. Ma si è derogato al codice degli appalti, contesta uno studente. Ma non alla direttiva europea, che consente di mettere a bando un’ipotesi di progetto meno che preliminare, risponde un’altra. E di lì una lunga conversazione se è meglio la normativa italiana che blinda il perimetro dell’appalto – salvo poi aprire la stura a mille varianti – oppure quella europea che lascia confini più flessibili nella definizione dell’implementazione del progetto, come se la discussione del caso potesse ridursi ad una valutazione della coerenza delle procedure amministrative, mentre aspetti quali la leadership del progetto e la sua gestione fossero secondari rispetto agli esiti.

 

La seconda si è svolta lo stesso giorno con Luigi Sant’Andrea, diplomato EMMAP 5° edizione, Amministratore Delegato di Società Infrastrutture Milano Cortina 2026 (SIMICO) con poteri commissariali su alcune opere connesse alle Olimpiadi, che ho intervistato dopo la discussione del Caso Genova. Luigi ha raccontato agli studenti cosa fa SIMICO, società a totale controllo pubblico, che è chiamata a progettare e appaltare opere sportive e viarie, per circa 2 miliardi e mezzo di investimenti, con l’obiettivo non solo di rendere possibile l’organizzazione dell’evento, ma anche di lasciare una legacy sul territorio, sia materiale (opere, quanto più sostenibili), sia immateriale (competenze di management nella gestione di complessi piani di investimento). La risorsa scarsa, ci spiega, è il tempo. E per vincerla serve conoscere in modo dettagliato i processi e gli attori, definire bene le priorità, programmare con grande abilità attività anche in parallelo e non solo in sequenza. E non, come si potrebbe pensare, di far accadere le cose solo per i poteri commissariali. Anzi, si tratta di impostare una strategia di procurement e di gestione dei contratti finalizzata ad assicurare la massima trasparenza e collaborazione con tutte le forme di controllo previste dalle norme e, allo stesso tempo, di promuovere offerte innovative e sostenibili sul piano ambientale e dei diritti dei lavoratori nei cantieri. E allora? A cosa servono i poteri commissariali? A costruire percorsi amministrativi che non deroghino i principi alla base del nostro ordinamento, ma che siano coerenti con i vincoli del contesto, è più o meno la risposta che ricevo. E, ciononostante, la collezione delle autorizzazioni resta una sfida non banale.

 

 

 

La terza è con Roberto Giarola, anche lui diplomato EMMAP,  4° edizione, Capo dell’Ufficio legislativo e contenzioso del Dipartimento della Protezione Civile, già protagonista di un post su temi affini di qualche settimana fa, di cui mi interessa il parere anche con riguardo alle vicende ischitane. Non c’è da stupirsi se – anche questa volta – la macchina della colpa si sia attivata senza perdere tempo. Eppure, dice Roberto, se vogliamo capire cosa è successo ad Ischia (e succede altrove), dobbiamo capire che si tratta di un fenomeno complesso che vede un sistema diffuso di responsabilità interdipendenti, che incrocia la pratica dei condoni, ma anche dei piani regolatori inadeguati, di una manutenzione del territorio insufficiente, insieme a quella di chi sfida la sorte scegliendo di abitare in luoghi noti per la loro esposizione al rischio. Servono norme più stringenti? – chiedo. Non bastano le norme per orientare i comportamenti e le pratiche, risponde. Al contrario, l’ipercinesi normativa ha fatto qualche disastro. Oltre a quella del dissesto idrogeologico, viviamo un’emergenza ordinamentale: norme primarie scritte come circolari che hanno perso la vocazione di stabilire principi generali e, allo stesso tempo, prive di quel pragmatismo di chi si prefigura chi e come quelle norme è chiamato ad applicarle. E invece il nostro ordinamento si basa solo su assoluti, che poi finiscono per scontrarsi tra loro (salute, ambiente, lavoro, privacy) e la ricomposizione sembra sempre che non possa che avvenire per opera della magistratura. Non è un caso che gli atti di applicazione delle norme siano scritti come se fossero già le linee difensive di un potenziale contenzioso. È per questo che sembra che non si possa fare niente senza poteri commissariali? – provo ancora. Sembra, perché poi anche laddove sono previste deroghe, si ha una grande paura a usare anche quelle. Inoltre, le ordinanze di protezione civile non possono (e non devono) bypassare le norme, ma al contrario devono assicurare le misure di semplificazione e speditezza che – per un tempo finito ed un ambito circoscritto – assicurano l’applicazione dei principi normativi anche laddove, per ragioni di esigenze di emergenza e urgenza, non si possono applicare gli iter standard. Per certi versi, basterebbe che quando si scrivono le norme generali si pensasse – come si fa quando si scrivono le ordinanze – che la fuori c’è una realtà in cui le norme si devono calare

 

 

In conclusione, quelli tra ordinamento e realtà sono coloro che sono chiamati a dare risposte irrimandabili, come ricucire una città lacerata, far trovare pronti gli impianti per le Olimpiadi, rispondere ad un’emergenza di protezione civile, combinando orientamento al risultato e rispetto dei principi normativi. Sembra che, in questi casi, i costi collettivi del non fare o del rimandare siano tali da costituire un tensore sufficientemente forte da aprirsi un varco nell’ordinamento, in parte grazie ai poteri commissariali, ma in parte anche grazie alle capacità di chi guida di non perdere di vista il traguardo e il suo valore pubblico. Da un lato, viene da chiedersi se non è tempo che il principio di realtà plani anche nella disciplina delle procedure ordinarie, tanto più in un tempo in cui l’ordinario sono i fondi del PNRR. Dall’altro, se non è tempo di intervenire anche nelle conversazioni, nelle culture e nelle pratiche, non solo nelle norme. Forse è arrivato il momento di una pacificazione sociale che restituisca al legislatore la sua funzione di stabilire poche e certe norme generali pensate per la fisiologia della realtà, e non per inseguirne la patologia; a chi le implementa la funzione di responsabile della risposta ad un bisogno, invece che di potenziale imputato sempre pronto alla difesa; e a chi controlla e giudica la funzione di assicurare massima inflessibilità verso chi persegue interessi particolari invece che generali, senza perdere di vista che l’interesse generale è nel promuovere il fare e non l’astensione dall’azione per paura.

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