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Quattro consigli per gestire la complessità delle amministrazioni pubbliche

Le grandi emergenze, come quelle che abbiamo vissuto negli ultimi anni, sono un banco di prova straordinario per testare la capacità gestionale nelle amministrazioni pubbliche. Al punto che gli apprendimenti maturati in questo campo possono diventare molto utili per affrontare le emergenze ordinarie, ovvero le continue discontinuità che interrompono o rallentano l’operare pubblico. Ne abbiamo parlato venerdì nell’ambito del corso “Leadership nei servizi di pubblica utilità, gestire le emergenze ordinarie” della Government Academy di SDA Bocconi, sotto la guida di Elisabetta Trinchero, con Roberto Giarola (EMMAP 4), Capo dell’Ufficio legislativo e contenzioso del Dipartimento della Protezione Civile, presso la Presidenza del Consiglio, con quasi 30 anni di esperienza nel mondo della gestione delle emergenze da una prospettiva amministrativa. Ecco i quattro consigli che offre nella sua lezione.

1 Tenere i piedi per terra

Guardare le cose come sono, non come dovrebbero essere ma non sono, è l’incipit pieno di pragmatismo con cui Roberto apre il suo intervento. In quasi tutte le piccole o grandi emergenze si capisce subito che raramente il pubblico ha dentro il suo perimetro tutte le risorse, economiche, umane, strumentali, ma anche di competenze tecniche, funzionali a gestirle. Ed è questa insufficienza cronica, strutturale, forse persino fisiologica, che produce la distanza su come le cose dovrebbero essere sulla carta e come sono nella realtà. Pertanto, non basta che la direzione marittima competente eserciti il suo potere pubblico intimando all’armatore di rimuovere il relitto del transatlantico spiaggiato all’isola del Giglio: è vero, tocca all’armatore occuparsene sotto ogni profilo, a partire da quello finanziario. Ma occorre anche dirgli “come” rimuoverlo: e il “come” tocca al pubblico stabilirlo, vista la complessità di interessi in gioco (a partire dagli impatti ambientali dell’operazione). Ma il pubblico una risposta non l’aveva pronta: l’ha dovuta costruire, un pezzo alla volta, dentro ma anche molto fuori dal perimetro della PA. Stessa cosa dicasi quando si collabora con le autonomie locali: sulla carta i comuni hanno tutti le stesse competenze e responsabilità a prescindere da latitudine e dimensioni. Nei fatti, però, quando un comune ha meno di 700 anime, sparse tra 19 frazioni, e in tutto 10 dipendenti, di cui 4 part time, e inclusi 1 vigile e due operai (come nel caso di Accumoli alla vigilia del terremoto del centro Italia), difficile anche solo aspettarsi di trovarci un piano affidabile per gestire l’emergenza, pur previsto per norma.

Tenere i piedi per terra significa, quindi, saper riconoscere ed accettare i limiti all’esercizio della funzione pubblica, non per cercare alibi, ma per attrezzarsi adeguatamente.

2 Imparare a pensarsi meno regina e più pedina

Sono tutti bravi a parlare di reti e partnership col privato, ma poi pensano sempre di poterle comandare o comunque gestire con leve gerarchiche. Ma, guarda un po’, si scopre presto che così non funziona. La gestione delle emergenze mette sovente di fronte al dato di fatto di non bastare, di non essere autosufficienti nella gestione della crisi e, pertanto, alla necessità di costruire un gioco collaborativo dove ciascuno possa fare la propria parte. E dove, all’occorrenza, il perno della soluzione è qualcun altro. È il caso della gestione della Tempesta Vaia del 2018 nel nord-est: non un palo della luce era rimasto in piedi e senza energia nessuna comunicazione era possibile. La prima fase della gestione dell’emergenza è passata per una diretta collaborazione con l’operatore privato del servizio energia, unico in grado di ripristinare la fornitura per riattivare le comunicazioni nella zona. Scenario simile ogni volta in cui serve rimuovere detriti: senza una diretta collaborazione con l’operatore che ha in gestione lo smaltimento dei rifiuti, la soluzione non si trova. Ecco perché occorre pensarsi meno come la regina dello scacchiere e più come una pedina, che ha le sue mosse da fare, insieme alle altre, senza super poteri.

Ma se la gestione delle emergenze insegna presto che occorre costruire un gioco autenticamente collaborativo, altrettanto velocemente aiuta a mettere in guardia dalle derive assembleariste, dove tutti partecipano parlando per sé, senza una chiara condivisione dell’obiettivo comune e della responsabilità verso il risultato atteso.

3 Prefigurarsi la fine del film

La differenza tra un film e una soap opera è che il film ha un inizio e una fine, mentre le soap possono durare decenni e l’unica storia che conta è quella del momento presente, al punto che nemmeno gli autori sanno come andrà a finire. Nelle politiche pubbliche, ci sono soluzioni che sembrano essere geniali sul momento, ma rischiano di diventare disastri annunciati, se non si immaginano i possibili sviluppi. Non di rado, purtroppo, i problem solver di turno cui manca una chiara visione sulla fine del film si sentono più gli autori di una soap, ovvero liberi di inventarsi soluzioni che poi toccherà a qualcun altro capire come incastrarle con la realtà che verrà. È questo il caso del contributo per l’autonoma sistemazione, uno strumento di supporto economico per chi ha perso la casa a causa di evento avverso, mentre si procede con la ricostruzione. Non si tratta solo di pensare per quanto tempo lo strumento è finanziabile, ma anche di sviluppare ipotesi rispetto a come evolverà nel tempo il bisogno per cui la misura è stata pensate: non tutti restano in attesa della ricostruzione e molti trovano altre sistemazioni, si trasferiscono altrove, cambiano vita. Senza la giusta flessibilità, strumenti di prima assistenza fondamentali per rispondere all’emergenza abitativa nel tempo si trasformano in altro e sovente questa trasformazione accade nei fatti, senza una guida intenzionale, col rischio di disperdere risorse pubbliche avendo creato nuove sacche di assistenzialismo, laddove si intendeva rispondere ad un bisogno urgente.

Prefigurarsi la fine del film significa avere un approccio strategico, ovvero sviluppare ipotesi di scenario sulle condizioni al contorno al fine di immaginare come la soluzione proposta può coerentemente evolvere per restare fedele al fine per cui è stata introdotta.

4 Liberarsi dalla paura (rafforzando la competenza)

Ok è vero, l’ordinamento è un pasticcio. Roberto ci convince di questa affermazione con tre esempi, che richiederebbero ben più di un post, come la normativa che disciplina la Tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (D.lgs. 81/08), il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.lgs. 42/04) e la normativa del Trattamento dei dati personali (Lgs. 101 del 10 agosto 2018). In tutti e tre i casi la tutela dei (sacrosanti) diritti in questione passa per una ipertrofia normativa volta a disciplinare ogni possibile scenario sulla scorta di una manifesta diffidenza (per incompetenza o malafede) verso chi le norme è chiamate ad applicarle. E così l’esito finale è paradossalmente opposto a quello ricercato: il ginepraio normativo, ammalato sovente di mancanza di senso della realtà, oltre che di contraddittorietà e rigidità, rende molto incerta l’applicazione delle norme. Ora, di fronte a questo scenario ci sono solo due opzioni: cercare nelle norme la legittimità di una decisione ritenuta la più adeguata sulla base dello stato di conoscenza dei fatti, confidando nel potere dei propri argomenti e nella ragionevolezza delle istituzioni giurisdizionali e di controllo; oppure cercare nelle norme la soluzione che più tutela il decisore da possibili rischi collegati alla decisione stessa, un po’ a prescindere dalla natura degli esiti. In genere, aggiungo io, la ragione per cui si cade nel formalismo burocratico non è solo in virtù di una scarsa fiducia nella ragionevolezza degli organi di controllo e di giurisdizione, ma perché ci si muove senza alcuna ipotesi rispetto a quale possa essere nel merito la via più adeguata alla soluzione e si resta incollati al formalismo burocratico per sostanziale inadeguatezza al proprio ruolo.

In conclusione, una competenza più solida aiuta a liberarsi dalla paura quando si maneggiano le norme, perché sostiene una visione più nitida dell’interesse pubblico in gioco.

Una prova?

“A tutti piace pensare che gestire in deroga alle norme sia più facile. Ma stiamo facendo uno studio: quante delle deroghe incluse nelle nostre ordinanze sono poi state effettivamente utilizzate. Vi anticipo che le deroghe usate sono molto poche. Una netta minoranza di quelle richieste e da noi autorizzate.”

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