#ValorePubblico

Cambiamento per legge? Il caso dei concorsi pubblici

Vengono prima le riforme, intese come cambiamenti nella pratica manageriale, oppure le riforme intese come cambiamenti nelle leggi? Il dibattito assomiglia un po’ alla storia dell'uovo e della gallina. Prima o dopo, occorre tenerli insieme. Come? Alcune proposte a partire dal caso dei concorsi pubblici

Dalla pratica alle leggi: il valore della sperimentazione

Recentemente, in un commento al recente DL PNRR2, ho letto che definire per legge le competenze sarebbe “naïf” e, sempre nello stesso pezzo, poco sotto, si chiedeva che fossero le norme a meglio definire cosa si intende per esperienze valutabili ai fini di un concorso. In sintesi, non si capisce qual è il punto di cottura delle norme desiderato nei processi che accompagnano le traiettorie di riforma: o troppo puntuali o troppo lasche.

Poco più di un anno fa, in occasione di una lezione aperta del master EMMAP dedicata alle innovazioni manageriali nelle procedure di concorso, cui parteciparono molti esperti di estrazione diversa, da studiosi a dirigenti dello stato, italiani ed europei, sostenevo che non servissero nuove norme per selezionare le persone per quello che sanno fare, invece che per quello che hanno memorizzato (qui la sintesi). A sostegno della tesi, portavo casi reali in cui enti pubblici diversi avevano sperimentato nuovi metodi di selezione (qui i casi e i commenti). Mi venne eccepito, non senza ragione, che tra le ragioni per cui tali innovazioni restavano appannaggio di poche illuminate autonomie locali vi erano le norme. Infatti, un commento allora fu “va bene dire che il cambiamento non passa solo per la norma, ma non dobbiamo aver paura di cambiarla la norma, se non tiene più alla prova della realtà”.

Di lì a poco si è aperta una nuova importante stagione di riforme. Tra queste, quelle che riguardano i concorsi, che tolgono ogni alibi alle innovazioni nei concorsi: le norme non sono più un ostacolo. Dopo il DL 80 del 2021 per la dirigenza, ora il DL PNRR2 chiarisce che per tutte le tipologie di concorso l’oggetto di osservazione delle prove non può essere solo la conoscenza, ma anche la competenza a tutto tondo. E se definire cos’è una competenza per legge è naïf (anche perché di definizioni in giro ce ne sono molte, ad esempio qui) quanto meno lo sforzo ha il merito di fugare ogni dubbio sul superamento della logica delle ‘materie di esame’. In sintesi, dopo alcune esperienze apripista, le norme seguono le sperimentazioni sul campo e offrono le ‘coperture’ normative richieste. Basterà per scalare i sistemi di reclutamento e selezione negli enti dello stivale?

Occorre aumentare la tolleranza dell’errore. Il bando “a zero rischio ricorso” non esiste.

Dalle leggi alla pratica: scalare le innovazioni

Cosa permette, dunque, che negli enti dove si scrivono i bandi di concorso si colgano le opportunità aperte dalle nuove norme? Cosa trasforma una riforma in un cambiamento? In sintesi, occorre che negli enti siano disponibili tre cose.

 

La prima è la visione. Come in ogni processo di cambiamento, chi è chiamato ad attuarlo ha bisogno di capire il senso della richiesta di discontinuità. Perché non c’è innovazione che non porti costi, anche solo cognitivi, o fatica e paura di sbagliare, di essere sanzionato. In sintesi, tutto il repertorio delle resistenze al cambiamento. Nonostante le nuove norme, il rischio che le pratiche si discostino poco dallo status quo è insito nella tendenza conservatrice delle burocrazie, pubbliche o no, se non si converge sul senso di urgenza e sulla necessità del cambiamento. Oggi, cambiare il modo di selezionare i candidati ai concorsi non solo migliora l’efficacia della selezione, ma qualifica la platea di candidati (tanti talenti si tengono alla lontana dai concorsi perché non si sentono valorizzati dalle modalità tradizionali di selezione). E, no. Non retrocede di un passo in punto trasparenza e accountability delle procedure concorsuali. Lo dimostrano gli enti che si sono mossi per primi su queste vie.

 

La seconda è la professionalità. C’è la legge. Poi c’è la lex specialis: il bando. E chi lo scrive deve avere chiare, molto chiare, tre cose: (1) il profilo della o delle persone ricercate; (2) un’ipotesi su chi, dove e quanti sono i potenziali candidati che più si avvicinano al profilo al punto 1; (3) il mix delle prove che meglio aiuta a capire chi tra i candidati più si avvicina al suddetto profilo. Di solito queste tre cose sono definite direttamente o indirettamente dal bando. Che però sovente include informazioni schizofreniche: il profilo richiesto è super specialistico, e magari sono richiesti requisiti molto elevati, ma poi le prove previste dal bando barattano la rilevanza degli ambiti di esame con la facile rilevabilità (le crocette di diritto amministrativo per un digital innovator forse non sono lo strumento giusto). Tra gli effetti negativi di un mix di prove sbagliate, nei metodi e nell’ordine, vi è anche l’effetto scoraggiamento dei candidati potenzialmente più idonei, che non si sentono valorizzati da procedure concorsuali distanti dai propri percorsi. Tenere insieme disegno del profilo, ipotesi sul bacino di reclutamento e progettazione delle prove è un lavoro diverso dalla mera gestione amministrativa delle procedure concorsuali. Pertanto, il rinnovamento della funzione risorse umane negli enti e il potenzialmente – anche in condivisione, per le realtà più piccole – di uffici qualificati di reclutamento e selezione è necessario a far sostenere il cambiamento.

 

Infine, occorre aumentare la tolleranza dell’errore. Il bando “a zero rischio ricorso” non esiste. Perché c’è un tempo di apprendimento non solo degli uffici risorse umane, che qualche passo lo sbaglieranno, ma anche della magistratura amministrativa, che si troverà ad affrontare il tema con strumenti normativi nuovi e distanti dalla cultura di provenienza. Pertanto, maggiore tolleranza dell’errore significa anche scegliere di non sacrificare il buon senso dell’azione amministrativa sull’altare della riduzione del rischio contenzioso, secondo un esercizio ottuso della prudenza. Anzi, una certa dose di ricorsi è forse anche auspicabile, in quanto aiuta ad assestare e consolidare le norme nelle pratiche, a identificare i vuoti normativi, a dimostrare che lo spazio per perseguire e sanzionare chi dentro l’innovazione ci porta intenzioni contrarie all’interesse pubblico non è perduta.

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