
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 21 mag 2025
- 17 giorni
- Blended
- Italiano
Fornisce le conoscenze e gli strumenti fondamentali per un effettivo esercizio della funzione di direzione della PA.
300.000, forse 500.000 nuovi ingressi. I numeri delle nuove “infornate di giovani”, come qualche commentatore ha definito, generano un certo sgomento. Perché, come tutte le opportunità così letteralmente straordinarie, se non colte adeguatamente diventano boomerang altrettanto straordinari. Infatti, ricordiamo che tutte le persone che assumeremo oggi resteranno con ogni probabilità nel sistema pubblico fino alla fine della loro carriera lavorativa, destinata certo ad allungarsi e non il contrario. Decenni, quindi.
Se non è questo il più grande investimento infrastrutturale che il Paese sta per fare, ditemi voi qual è. Come fare, per fare bene?
Per qualcuno parlare di concorsi significa partire dalla fine. Mi si dirà che dobbiamo prima affrontare l’annoso tema dei fabbisogni o quello dell’attrattività.
Mi limito, in questa sede, a far notare che il tema dei fabbisogni è a sua volta collegato ad una miriade di temi ancora più controversi: quello dei modelli organizzativi (frammentati e inadeguati, costruiti per rispondere ad esigenze contingenti e non strategiche); quello del rapporto con la tecnologia (tanta attività routinaria a basso valore aggiunto e ampiamente automatizzabile è invece ancora affidata a persone le cui competenze sono ignorate e umiliate da questi modelli organizzativi); quello del rapporto col mercato (che senso ha assumere esperti programmatori se poi i servizi digitali sono tutti esternalizzati? Ha ancora senso assumere educatori o a tendere immaginiamo che i servizi della fascia 0-6 saranno assicurati con forme di gestione di collaborazione col terzo settore?). Infine, il tema dei temi parlando di fabbisogni: quali profili professionali? Come li costruiamo? In un mondo in cui le professioni tradizionali sono saltate e la società della conoscenza e dell’informazione ha ‘commoditizzato’ gli specialismi, ha senso assumere a vita dei super tecnici? Sono sufficienti poche e ampie filiere professionali, inquadrate in un modello di competenze in cui la dimensione tecnica non prevalga sulle capacità realizzative, relazionali o organizzative, articolate per intensità in base al ruolo. Selezionare sulla base di competenze trasversali come queste richiede di ripensare le procedure concorsuali. E questo è il mio primo argomento a favore della necessità di partire dai concorsi.
Un accenno anche al tema cruciale dell’attrattività. Non è solo un problema di marketing: certo in molti non conoscono quali e quante sfide professionali e carriere interessanti si possono svolgere nelle istituzioni pubbliche. Ma una delle ragioni per cui tanti giovani capaci nemmeno ci pensano a lavorare nella PA è perché sono scoraggiati proprio dai sistemi di gestione delle persone, in primis dalle modalità di accesso, che invece di valorizzare i risultati conseguiti negli studi (che già certificano il possesso di alcune conoscenze) devono dedicare anni alla preparazione di prove sovente astruse, frutto dei capricci di commissioni variegate. E questo è il mio secondo argomento sul perché cambiare modello dei concorsi: diamo il segnale che cerchiamo persone capaci, dinamiche e visionarie con concorsi capaci di valutare queste dimensioni, anche questo è employer branding.
E poi c’è un terzo argomento, molto pragmatico: non risolveremo tutti i punti qui sopra in tempi utili a gestire le immissioni programmate. Se, nel frattempo, i concorsi vanno avanti senza grandi innovazioni, il rischio è di perdere questa incredibile finestra di opportunità. Mentre già da domani possiamo scrivere bandi nuovi.
Ultimo argomento a favore del perché partire dai concorsi: cambiare modalità di selezione non richiede riforme, nuove norme, attese di interventi legislativi di vario livello e grado. Si può fare a normativa vigente. Si sta già facendo. Occorre ‘solo’ avere chiaro l’obiettivo e cambiare metodo, con la pazienza di chi un metodo nuovo lo deve imparare.
Il problema della selezione nel pubblico non è il concorso. Tanto meno la Costituzione. Nessuno con un po’ di esperienza sul campo e di senso dello Stato mai auspicherebbe di poter buttare a mare uno strumento capace di assicurare terzietà e formalizzazione del processo di scelta dei futuri dipendenti pubblici, destinatari di oneri e onori specifici. La colpa, al limite, è del sistema educativo nostrano, atavicamente centrato sulla trasmissione e accertamento di conoscenze, invece che sullo sviluppo di capacità critiche ed elaborative. Quanti pensano che il Concorso dell’ENA sia il modello da imitare dovrebbero andare a studiare il modello universitario che all’ENA prepara, dove gli studenti sono allenati sin dal primo anno ad essere valutati per la capacità critica e non certo sulla base della quantità di informazioni immagazzinate. Non a caso, nessuna delle prove del concorso ENA ha nemmeno l’ombra del nozionismo richiesto nei nostri concorsi, che sono invece brutte copie di esami di un’università che non c’è più nemmeno qui.
Se poi stringiamo l’attenzione sui concorsi per l’accesso ai ruoli dirigenziali, che tipicamente reclutano all’interno di un bacino di potenziali candidati che hanno già passato un concorso pubblico di tipo nozionistico (i funzionari), il paradosso si fa ancora più insopportabile: hanno più chance di passare coloro che hanno meno da fare e possono dedicarsi – magari anche durante l’orario di lavoro – a sorbirsi compendi e manuali, di coloro che – magari perché più bravi? – ricoprono incarichi di responsabilità, hanno meno tempo per studiare e rischiano fatalmente di vedersi superati. Finché non risolviamo questa contraddizione, anche la motivazione del personale ne esce compromessa: non potremo auspicare dipendenti più proattivi e coinvolti, se la loro capacità dimostrata sul campo non sarà mai presa in considerazione nelle prospettive di carriera. E non sto proponendo di cambiare le norme sulle riserve per gli interni, ma di disegnare prove che – come diremo – tengano conto di cosa si sa fare, non solo di cosa si sa.
Infine, il concorso tradizionale assomiglia più ad un sistema di approvvigionamento di bulloni che di capitale umano. Con la scusa – perché è solo una scusa, come diremo a seguire – di garantire procedure a prova di raccomandati di varia natura, si alimenta una macchina infernale di prove che non provano granché, a cura di commissioni di esperti della materia, ma del tutto inesperti di selezioni, che riproduce il peggio della PA che vogliamo lasciarci alle spalle: anche se questo modello non piace a nessuno, si continua a fare così, perché si è sempre fatto così e si fa fatica a vedere che un altro modo, invece, c’è.
Anche se questo modello non piace a nessuno, si continua a fare così, perché si è sempre fatto così e si fa fatica a vedere che un altro modo, invece, c’è.
No, non sto per dire che bisogna fare come fa il privato. Intanto perché “il privato” è un tantino generico e certo i sistemi di selezione di una grande multinazionale non sono quelli di una piccola impresa familiare. Piuttosto, fare come fa già il pubblico più avanzato. All’estero, ma anche in Italia. E come fa il pubblico più avanzato? Si pensi ai concorsi dell’EPSO, l’agenzia pubblica europea che gestisce i concorsi di accesso alle istituzioni europee. Selezionare i candidati sulla base della conoscenza di un diritto che muta più rapidamente di un coronavirus non aveva più molto senso. Più utile, invece, mettere a fuoco un set di competenze di ruolo stabili e con una buona capacità predittiva delle performance future e valutare quelle. Tra queste, la capacità di apprendere rapidamente (necessario in un contesto in cui la produzione normativa è così in evoluzione), ma anche la resilienza, la competenza che – a detta dei concorsisti di professione – si dimostra quando ci si immola alla causa di dedicarsi a passare un concorso ‘tradizionale’.
Alla fine l’inghippo è tutto qui. Passare dal concetto di ‘materie del concorso’, che rimandano al concetto di conoscenza ‘da manuale’, a ‘competenze’, che guardano non solo a saperi teorici, ma a capacità applicative e comportamenti osservabili. Con la disciplina vigente, tanto più per come è stata recentemente rivista, è sufficiente che tutte le prove previste dalle norme (scritte e orali) siano costruite in modo da accertare il possesso delle suddette competenze: i temi si possono sostituire con case study e prove in-basket, le prove orali con simulazioni di gruppo o interviste competency-based, secondo le metodologie dell’assessment center, ampliamente collaudate e scientificamente validate in contesti privati e pubblici.
Si potrebbe discutere se il riferimento per il bando debba essere un modello di competenze di profilo, di ruolo o di posizione. Ad oggi, vige una grande libertà. E, prima che questo spazio venga compresso da norme che livellano per fini estetici (la diversità è incomprensibilmente spesso mal vista), agli enti è data la possibilità di costruirsi modelli di competenze coerenti con i propri fabbisogni organizzativi e, su questi, costruire bandi di concorso rigorosi e, quindi, prove credibili.
Ma, attenzione, la credibilità non è solo frutto di intenzioni, ma della professionalizzazione di questa funzione, che non è certo assicurata dall’ingaggio di volenterosi commissari che a titolo pressoché gratuito si dedicano nei ritagli di tempo ad una attività così strategica. Nemmeno sto parlando di imperscrutabili psichiatri che guardano e giudicano l’anima dei candidati. Ma di attività svolte da professionisti addestrati a riconoscere in una prestazione offerta nel corso di un mix di prove costruite allo scopo – siano esse scritte e orali – l’intensità di espressione di un set di competenze dichiarate oggetto di osservazione, secondo metodologie trasparenti, codificate ad accountable.
Infine, l’ultimo ingrediente è il coraggio della competenza di chi conosce gli strumenti e li sa adattare alle norme e della visione di chi pensa ad una politica delle risorse umane di largo respiro. La prova che si può fare è che già si fa, come racconteremo qui. Il vantaggio di guardare ai primi esperimenti è di apprendere soprattutto come evitare gli errori o gli ostacoli che non si erano messi in conto. Ma poi occorre fare.