#ValorePubblico

Innovare significa destrutturare?

Questa settimana si è concluso l’accompagnamento ad un progetto di innovazione sociale che riguarda l’edilizia residenziale pubblica. E alla fine di questa esperienza mi chiedo se favorire l’innovazione non sia anche un po’ proteggere il disordine dalla ricerca di ordine.

La transizione del modello di servizio

Delle aziende casa abbiamo più volte detto su questo blog (qui e qui) e anche fuori da questo blog (qui e qui) perché è davvero una storia interessante di public management. Racconta di un settore, quello delle aziende di gestione delle case popolari, che si trovano, un po’ all’improvviso, a cambiare mestiere: non più costruttori e gestori di immobili per la working class in arrivo dalle campagne o dal Sud, ma proprietari dei luoghi dove si concentrano (e, drammaticamente, si perpetuano) le fragilità sociali più acute e complesse. Non stupisce che le reazioni a questo progressivo slittamento di posizionamento siano state largamente di rifiuto della nuova realtà: c’è chi ha cercato di tenersi stretti i vecchi utenti allargando le maglie dei criteri di permanenza nel tempo, fino a istituzionalizzare forme di eredità del diritto alla casa pubblica, o chi ha introdotto regole per tenere fuori i nuovi fragili, a partire dai migranti. Ma se questo gioco ha funzionato in alcune realtà più piccole, nelle grandi città non ha retto. I nuovi bisogni sociali si sono imposti con prepotenza nelle periferie o nelle enclave cittadine che popolano l’immaginario di una nuova generazione di trapper, narratori della vita in un Bronx nostrano. E alle aziende gestrici delle case popolari non resta che venire a patti con questa nuova realtà, ripensando i propri servizi abitativi. Come?

Gli ingredienti dell’innovazione

Aler Milano, ad esempio, ha scelto due ingredienti. Anzi, tre. Il primo è fatto di alcuni spazi dismessi in quattro punti della città: ex portinerie, ex locali comuni, sempre luoghi abbandonati ad illustrazione del degrado dei quartieri ERP. Questi spazi, adeguatamente riprogettati e riattati, diventano la C.A.S.A. (Centro Aler Servizi Abitativi) del quartiere: luoghi di ascolto, richiesta informazioni, accoglienza, animazione sociale, ma anche di promozione della protezione dalla violenza domestica e della salute territoriale, grazie all’accordo con le aziende sanitarie del territorio e il terzo settore. Il secondo ingrediente si compone di una ventina di ragazze e ragazzi. Quelli che la stampa dice essere disillusi, disimpegnati e senza ideali. E invece questi venti (poi quasi raddoppiati) si sono laureati in discipline sociali o urbanistica e architettura, hanno seguito un corso di formazione ad hoc e hanno scelto di fare un’esperienza di lavoro sociale nei quartieri popolari della città, con il job title di Community Manager. Il terzo, più modesto, ingrediente è un gruppo di ricercatori eterogeneo, dove le politiche urbane e il management dei servizi pubblici si incontrano in terreni di feconda collaborazione e reciproca contaminazione, mentre assolvono il compito loro assegnato dall’azienda di sistematizzare l’esperienza, disegnare il perimetro del servizio e gli indicatori di performance, ridefinire le procedure aziendali, i compiti e gli obiettivi della nuova figura professionale.

 

I risultati dell’innovazione

I nuovi assunti sono stati sparpagliati per gli uffici territoriali dei quartieri sede della sperimentazione e assegnati ad alcune emergenze amministrative, tra cui l’aggiornamento porta a porta dell’anagrafe dell’utenza, che molti inquilini si dimenticano di aggiornare, causando improvvise impennate del loro canone e conseguenti interruzioni nella regolarità dei pagamenti. Oppure impegnati nell’ascolto dei bisogni e delle paure degli inquilini interessati da procedure di mobilità forzata. Fino alla gestione dei colloqui con i nuovi assegnatari, non tanto per dare un formale benvenuto, quanto per raccontare come funziona il servizio e anticipare loro le risposte alle domande che di lì a poco quasi sicuramente avranno.

Si scopre, in sintesi, che le attività che prendevano più tempo (e più energia emotiva) ai dipendenti dell’azienda, quelle che per far fronte ai tagli al personale erano state forzosamente ridimensionate, sono diventate il terreno in cui i community manager hanno inventato la loro start-up sociale. Per chi – come il gruppo di ricercatori – era chiamato a ridefinire ruoli e procedure, la constatazione di quanto spazio di innovazione stesse gemmando dalla libertà di azione di un gruppo di giovani professionisti motivati anche dall’ampia autonomia di azione sul territorio ha posto subito un dilemma: rispondere al mandato, costruendo nuove procedure aziendali, per standardizzare, uniformare e istituzionalizzare, oppure assecondare e, in qualche modo, tutelare l’autonomia creativa ed energetica di chi ha già nei fatti, col proprio operato quotidiano, portato un nuovo codice di relazione con l’utenza, fatto di tempo di confronto e nuovi territori di fiducia reciproca?

Il potere della libertà di sperimentare

Il lavoro di accompagnamento è diventato, quindi, uno spazio laboratoriale dove permettere ai dipendenti vecchi e nuovi dell’azienda di confrontarsi sul funzionamento e, quindi, sul senso del servizio, sui bisogni dell’utenza, sulle regole che servono e sull’equilibrio da tenere tra standardizzazione (ad esempio nelle rilevazioni delle informazioni critiche) e personalizzazione e adattamento ai contesti, a fronte di una visione comune del servizio. E se all’inizio la paura era che le poche decine di neo-laureati gettati nelle fauci della burocrazia pubblica ne sarebbero stati di lì a poco assorbiti, la realtà ci ha mostrato che sta succedendo piuttosto il contrario: sono le pratiche aziendali ad essere trasformate dal basso, legittimate anche dai risultati raggiunti dai giovani colleghi, che in pochi mesi hanno regolarizzato le posizioni dell’utenza nei quartieri a loro assegnati, con significativi impatti sui crediti dell’azienda per i quartieri coinvolti nel progetto. A forza di costruire nuovi database, progettare nuove modalità di accoglienza, gestire in autonomia pratiche amministrative o interventi tecnici dal front-end al back-end, il cambiamento è già cominciato. Al momento solo nei quartieri sede della sperimentazione, ma con buone prospettive di scalabilità. E dopo quasi due anni di lavoro gli ex neo-assunti non solo non hanno perso motivazione, ma hanno acquisito più consapevolezza della complessità del ruolo che si stanno, nei fatti, inventando sul campo, senza perdere quel po’ di energetica spregiudicatezza che serve quando si modella il futuro.

 

 

Queste riflessioni – e molte altre – sono il frutto del confronto costante con i colleghi coinvolti nel progetto, tra cui Eleonora Perobelli e Francesco Vidé, per SDA Bocconi, e Massimo Bricocoli, Direttore del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, con cui abbiamo condiviso un’entusiasmante esperienza di integrazione di discipline e sguardi, che è, forse, un piccolo seme di innovazione anche nel campo della ricerca sociale.

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