#ValorePubblico

Big Government? Strong Public Management!

Il peso che lo Stato è chiamato a giocare nell’economia sta crescendo in modo irreversibile, lo dice – a sorpresa? – anche The Economist. Gli apparati pubblici si trovano ad amministrare quote crescenti di PIL. Siamo pronti alla sfida?

Big Government: vecchi nemici, nuovi amici?

Il briefing e l’editoriale di The Economist di questa settimana sono dedicati ad un grande classico dell’economia: qual è la giusta taglia dello Stato nell’Economia? La cosa sorprendente – considerata la storica linea editoriale di stampo apertamente liberista della rivista britannica – è la risposta offerta nell’ultimo numero. In sintesi, si legge, la crescita progressiva della spesa pubblica sul PIL nel tempo è un fatto ineluttabile e irreversibile. Quasi una legge dell’entropia. Le eccezioni sono rarissime: la Svezia negli anni 80, la Nuova Zelanda negli anni ’90. E sono anche esperienze controverse, visto che autorevoli esponenti dell’attuale classe politica neo-zelandese hanno criticato quei tagli, ritenuti causa di nuove e drammatiche forme di diseguaglianze. Conti alla mano, il modello di sviluppo dei paesi di area OCSE funziona così: a spesa pubblica sul PIL crescente, nonostante le fasi di momentanea contrazione o austerità. Tanto vale, sembra suggerire il giornale alla comunità di lettori accomunati dagli stessi orientamenti economici, non dannarsi troppo l’anima nell’assistere a questa fase di impennata della spesa pubblica. A chi sembrano tante le risorse investite nei grandi piani di rilancio economico come il Next Generation EU (750 miliardi di euro, senza contare le risorse nazionali) e l’American Rescue Plan (1.900 miliardi di dollari cui sono seguiti altri interventi di simile taglia), a chi sembrano steroidi somministrati al Big Governement contro le forze dinamiche del libero mercato, viene dunque ricordato che non si tratta che di un picco, nell’ambito di un trend comunque in crescita. Tra le diverse ragioni che spiegano (verrebbe quasi da dire ‘giustificano’) tale intervento, due sopra le altre: la decarbonizzazione del sistema produttivo che richiede investimenti senza precedenti; l’innalzamento dell’età media che impone un nuovo modello di welfare e più risorse a protezione di una popolazione sempre più anziana, meno autosufficiente e più esposta a malattie croniche. Non resta che farsene una ragione.

A qualcuno queste posizioni suoneranno ovvie o al contrario irricevibili. Per altri può sembrare irrilevante cosa scrive una rivista – in più non scientifica – tra le mille in giro. Eppure, forse del tutto irrilevante non è, se interpreta o anticipa un pezzo del pensiero dominante nelle élites economiche e politiche europee e non solo. Per chi ha tenuto d’occhio il dibattito sulla rivista, si tratta di una notevole discontinuità col passato: poco più di dieci anni fa la rappresentazione dello Stato era affidata in copertina ad una specie di straripante Jabba the Hutt che ingurgitava l’uomo libero e il titolo auto-esplicativo di quel numero era “Stop!”, ovvero: basta continuare a nutrire la besta, il Leviatano, la vorace burocrazia. Era il 2010, gli stessi anni in cui le politiche di austerità prendevano piede con vigore anche nel nostro paese.

Quale management per il Big Government?

Ora il nuovo mainstream non è più “taglia la spesa” (quanto meno non per ora, non ancora), ma occhio a come spendi: “Not the size, but the nature of Governement”. Lascio agli appassionati del genere andarsi a leggere le ricette quindi suggerite su come favorire una “buona” spesa pubblica in un contesto di libero mercato, come ad esempio che è meglio finanziare la domanda invece dell’offerta di servizi, oppure come intensificare i monitoraggi contro i rischi di concentrazioni monopolistiche o cartelli. Il punto su cui, invece, mi interessa portare l’attenzione riguarda le implicazioni di questo paradigm shift per la gestione della cosa pubblica. Ne ravvedo almeno due: una di merito e una di metodo.

Nel merito: se la spesa pubblica è destinata a crescere così come il ruolo dello Stato nell’economia, dovremmo guardare alla recente contrazione del pubblico impiego in Italia (in termini di numero di addetti ed anche di spesa), come ad un incidente di percorso e dedicare l’attenzione non tanto a come assicurare il pieno turnover, né solo a come fare fronte alle incombenze del PNRR acquisendo velocemente professionalità in gran numero (che pur serviranno). Più complessivamente occorre riflettere su come costruire le condizioni per favorire la creazione e lo sviluppo di una élite di funzionari pubblici in grado di assumersi la responsabilità crescente che deriva dall’altrettanto crescente ruolo dello Stato.

Nel metodo: in una nuova fase espansiva non sarà più la ricerca dell’efficienza il mantra che dominerà le politiche pubbliche e non è detto sia una cattiva notizia, visto che in questo decennio se ne è più parlato che fatto davvero (di solito si è confusa efficienza con mero taglio della spesa, contrazione dei servizi e dello spazio di intervento pubblico). Volendo raccogliere l’invito a non badare a quanto si spende, ma a come si spende, una chiave di lettura utile è capire che valore genera l’intervento pubblico. Non si tratta di misurare solo gli impatti economici – come in molti hanno già cominciato a fare attorno ad esempio al PNRR – ma anche di dotarsi di strumenti per misurare gli impatti non economici, in termini di poche, ma chiare misure di outcome. In che modo questi investimenti saranno in grado non solo di ridurre la disoccupazione, ma anche di aumentare il livello di scolarizzazione secondaria e universitaria, riconvertire la produzione industriale in chiave green, migliorare le condizioni di vita dei più fragili, …?  Il PNRR si basa su un sistema di monitoraggio volto proprio a catturare queste dimensioni. Occorre che questa esperienza si estenda e diventi prassi.

 

Per anni abbiamo detto e scritto che il problema dei paradigmi di gestione della cosa pubblica era l’egemonia di narrazioni neo-lib del New Public Management. Ora che queste sono di fatto svanite, siamo pronti a proporre una solida e contemporanea alternativa?

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