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Digitalizzazione forzata della PA: quale eredità?

Giovedì scorso si è tenuto un convegno online sul tema “La PA alla prova del digitale” organizzato dalla Città Metropolitana di Bologna, cui ha preso parte anche la Ministra Fabiana Dadone. A me hanno chiesto di rispondere alla seguente domanda: “Cosa ci hanno insegnato questi mesi di digitalizzazione forzata della PA? Eravamo pronti?”. A causa di un imprevisto last minute, non ho potuto partecipare. Ecco la mia risposta qui. In sintesi: eravamo pronti? No. Cosa ci hanno insegnato questi mesi? Che ce la possiamo fare. Ma dobbiamo prendere bene la mira.

L’obiettivo non è digitalizzare la PA.

Ma digitalizzare il Paese. Attraverso la PA.

E’ stato pubblicato di recente l’aggiornamento 2020 del DESI, il Digital Economy and Society Index Report 2020, una specie di digitalometro europeo, che ci valuta tra i peggiori della classe: come Paese siamo i quartultimi, davanti solo a Romania, Grecia e Bulgaria. Ma a guardarci dentro, si può abbozzare una diagnosi delle ragioni del nostro ritardo. In punto digitalizzazione dei servizi pubblici, siamo sì sotto la media europea, ma nel terzo quartile: male, ma non malissimo. Siamo, invece, nell’ultimo quartile per quanto riguarda la digitalizzazione del nostro sistema economico (Integration of Digital Technology by Enterprises): come spiega il report, il livello di digitalizzazione delle imprese è molto eterogeneo e vede le grandi aziende guidare il processo, seguite, con un grande scarto, dalle piccole e medie imprese, modello economico dominante del nostro Paese. In Italia, infatti, solo il 10% delle PMI (vs. oltre 17% di media europea) punta su eCommerce e online. Come ci ha spiegato – sempre su questo blog – il Segretario Generale della Camera di Commercio di Cosenza, Erminia Giorno, durante il lockdown è stato necessario considerare come garantire l’accesso digitalizzato di alcuni servizi anche alle aziende meno attrezzate sul piano informatico.

Ma se la PA è poco digitalizzata e le imprese (soprattutto medio-piccole) lo sono ancora meno, siamo i terzultimi in Europa per l’utilizzo di servizi internet (pubblici e privati) da parte dei cittadini: lo abbiamo visto alla prova della didattica online, molte famiglie non possiedono che uno smartphone per accedere a internet, usato per svolgere funzioni basiche. Non stupisce, infatti, se durante il lockdown la remotizzazione di molti servizi pubblici si sia limitata a spostare sul canale telefonico le attività di sportello, incluso lo scambio di moduli, che sovente transitava su whatsapp, perché già l’email è una tecnologia meno diffusa tra l’utenza più fragile.  

 

Alla luce di questo scenario, la PA italiana ha una missione doppia: non solo digitalizzare se stessa, ma prendere consapevolezza di essere vettore di digitalizzazione del Paese intero, di essere Stato Innovatore, per dirla alla Mazzucato.

Bene su fibra e 5G

Ma senza competenze digitali sono cattedrali nel deserto

Da dove viene questo ritardo? La risposta sembrano suggerirla le tabelle successive del rapporto: se guardiamo al nostro livello di connettività (ad esempio, la diffusione della fibra ottica) possiamo certamente migliorare, ma siamo in linea con la media dei Paesi europei e siamo addirittura tra i più avanzati per alcune specifiche tecnologie, come il 5G. Ma c’è un punto su cui l’Italia è ultima in classifica: il capitale umano. Questo indicatore si compone di due parti: (1) il livello di competenze diffuse di uso di internet e di software di base; (2) la numerosità di specialisti e laureati in ICT. Possiamo immaginare che questi mesi ci abbiano aiutati a migliorare sul primo punto, quanto meno sulle competenze necessarie per usare le principali piattaforme di comunicazione e collaborazione via web. Ma difficilmente la digitalizzazione forzata di questi mesi può aver inciso sul secondo, aspetto su cui il gap accumulato ci porta ai margini dei paesi sviluppati. Questo ritardo ha un impatto tragico anche sulla PA che prova ad innovare: un grande ente pubblico locale intenzionato a fare importanti investimenti sulla digitalizzazione dei servizi, qualche anno fa  bandisce concorsi per circa 40 posizioni nei servizi informativi, inquadrati in categoria D, ovvero con una retribuzione paragonabile a quanto offerto nel privato per posizioni di junior digital specialist. Invece delle solite migliaia di neo laureati in giurisprudenza che partecipano ai concorsi per i ruoli amministrativi, in questo caso si sono presentati meno di 600 esperti ICT (pochi), con un’età media di 36 anni (non esattamente neolaureati nativi digitali). Con un mercato di competenze informatiche così ristretto ed una PA che fatica ad attrarre i giovani talenti, il processo di digitalizzazione dei servizi pubblici rischia di essere completamente esternalizzato, in mano a pochi grossi provider privati, che continueranno a fornire sistemi e soluzioni tecnologiche, ma non a trasferire competenze.  

Superiamo l’emergenza...

...senza perdere il senso di urgenza

Ricordiamo tutti quando in primavera si urlò allo scandalo perché la CIG era ‘bloccata’ al livello regionale. Ad avere la pazienza di guardare i numeri, si scoprirebbe che in poche settimane sono arrivate negli uffici regionali tre volte il numero di domande di cassa integrazione che erano state processate nel corso degli anni della crisi post 2008. E’ evidente che il processo di lavorazione delle pratiche non poteva reggere. Anche dove aveva funzionato bene fino a quel momento. Un dirigente di una regione tra quelle più colpite mi ha spiegato come ha sbloccato la situazione: la maggioranza delle verifiche da compiere erano piuttosto simili e il processo si prestava ed essere informatizzato, per lasciare al lavoro umano la gestione delle eccezioni. Pertanto, nel giro di pochi giorni si è fatto progettare un programma senza grandi sofisticazioni, in grado di lavorare in automatico le decine di migliaia di domande in arrivo e impacchettare i decreti da inviare ad INPS. Quanti sono gli spazi di automazione nei nostri processi amministrativi simili a questo esempio, che ci permetterebbero non solo di velocizzare i processi, ma anche di qualificare e rendere meno meccanico il lavoro delle persone? Senza l’enorme pressione sociale si sarebbero create le condizioni per introdurre questa (piuttosto basica) innovazione di processo? Lo stesso si può dire per la digitalizzazione della didattica a scuola e all’università, per la diffusione della telemedicina, dello smart working negli uffici amministrativi, e così via.  

 

“It all starts with a sense of urgency”, spiega Kotter, guru della gestione del cambiamento. Se c’è una risorsa di cui abbiamo capito il potenziale innovatore è proprio il senso di urgenza. La buona notizia è che non dobbiamo aspettare una nuova pandemia, ma – come insegna Kotter – possiamo allenare e diffondere questa competenza di management: aiutare le persone (dipendenti e stakeholers) a tenere lo sguardo sui bisogni non soddisfatti, sulle opportunità da non perdere, sulla necessità di immaginare modi nuovi. Se oltre a grandi investimenti in tecnologia, si investissero più risorse in competenze digitali di base per i dipendenti e di gestione dell’innovazione per i dirigenti, chissà che non si riesca a cogliere le occasioni offerte dalla digitalizzazione forzata.

 

 

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