
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 18 giu 2025
- 3 giorni
- Class
- Italiano
L’obiettivo principale del corso è quello di dare indicazioni e di offrire strumenti metodologici idonei a poter svolgere in chiave strategica la funzione di project manager.
Oggi cominciano le lunghissime vacanze estive per oltre 6 milioni di ragazze e ragazzi in Italia. E, come ogni anno, si torna a discutere della durata di questo break che pone infiniti temi di efficacia ed equità del servizio scolastico. Cosa ne impedisce la riforma?
Quanto sono lunghi 100 giorni?
È quanto si concede ad un nuovo governo per segnare la nuova rotta.
È quanto durò Napoleone nel suo ultimo tentativo di conquistare l’Europa, prima di Waterloo.
È quanto impiegò Hitchcock per girare il suo capolavoro, Psycho.
100 sono anche i giorni di un’altra grande impresa che vede come eroi i genitori di bambini e ragazzi dalla scuola primaria in avanti, impegnati a gestire la pausa scolastica più lunga d’Europa. Infatti (come già raccontato in un post di #valorepubblico di qualche anno fa) solo la Romania ha un break paragonabile al nostro e, peraltro, è anche il paese con cui condividiamo altri due imbarazzanti primati: la più bassa occupazione femminile e i più bassi livelli di scolarizzazione. Tutte cose tra loro imparentate.
Ora, sorvolo sul campionario delle motivazioni che un certo sindacato irresponsabile propina a difesa di questa lunga pausa estiva, come “fa troppo caldo” e “non ci sono le strutture adeguate in estate”: non si capisce come le stesse bollenti scuole possano ospitare centri estivi fino a luglio inoltrato (a pagamento), ma non attività scolastiche in senso stretto. E nemmeno mi avventuro a chiedermi quanto dei quasi 200 miliardi di PNRR che dovevano servire a investire proprio sulle infrastrutture sociali è stato destinato a rendere le scuole più ospitali d’estate (posto che il caldo è destinato ad arrivare sempre prima e a finire sempre più tardi). Lascio da parte anche i dati sul summer learning loss (la perdita di competenze degli studenti più fragili quando la pausa estiva è troppo lunga) e la profonda iniquità di questo modello (che trasforma le lunghe vacanze in un eldorado per ragazzi e bambini benestanti o con ricche reti affettive e, per tanti altri, in una condizione di sostanziale abbandono educativo). Sorvolo perché non è davvero discutibile che una riforma dei tempi della scuola sia cosa necessaria per migliorare inclusione e produttività in Italia.
Cosa ne impedisce la riforma, quindi?
I primi ostili a questa riforma sono in primo luogo gli insegnanti. Ma sarebbe superficiale derubricare il tema a mero corporativismo di chi si arrocca in difesa del proprio pezzetto di privilegio. C’è qualcosa di più profondo che rende la lunga pausa estiva legata a doppio filo col modello stesso di impiego pubblico che abbiamo scelto per il personale scolastico.
Come abbiamo già documentato qualche tempo fa parlando di andamento delle assunzioni nell’impiego pubblico, la Scuola è l’unico comparto che è cresciuto negli ultimi anni: a fronte di una natalità in calo di circa il 30% in 20 anni, gli insegnanti sono aumentati del 5%. Ma i salari sono rimasti al palo trasformando l’insegnamento in un mestiere sempre più povero (mentre in altri comparti la riduzione degli addetti è stata compensata da qualche adeguamento in busta paga).
Eppure le vocazioni non mancano, ma si concentrano soprattutto al Sud, dove la scuola resta una delle poche opportunità di impiego sicure soprattutto per le donne non laureate (sebbene da almeno 20 anni sarebbe obbligatoria la laurea per insegnare anche alla primaria, fino ad oggi è stato possibile diventare insegnante di sostegno con un solo corso breve post diploma).
Eppure, ci sono più bambini, più scuole e più posti da insegnanti nel centro nord. Pertanto, il Sud ‘esporta’ al centro nord circa la metà degli insegnanti che ha formato. Gli emigrati, una volta maturati i requisiti minimi, possono fare domanda per il trasferimento.
Gli ultimi dati disponibili del Ministero dell’Istruzione (a.s. 2023/2024) riportano di oltre 80.000 domande di mobilità territoriale. Circa la metà sono state soddisfatte. Gli altri aspettano. Ma chi sono questi insegnanti fuori sede?
Chi frequenta le scuole pubbliche conosce bene tante storie dietro questi numeri: sono per la quasi totalità donne, sorprendentemente tutt’altro che giovanissime, eppure si trovano a vivere in condivisione con altre colleghe nelle periferie delle città del centro-nord come delle studentesse, per cercare di contenere i costi. Alcune hanno deciso di tentare questo impiego quando i figli sono diventati più grandi e hanno lasciato a migliaia di chilometri la propria vita, cui tornano solo a Natale e, appunto, d’estate. Per qualcuna è stata una scelta necessaria per mantenere la famiglia da quanto non c’è più una persona anziana e la sua dote di pensione e accompagnamento ad integrazione del reddito del nucleo. Per altre è un modo per avere una pensione migliore. Per qualcuna una sfida personale per tornare ad essere attiva. Ma per quasi nessuna di loro la prospettiva di radicarsi al Nord è presa in considerazione. Ecco perché tre lunghi mesi di vacanza estiva sono parte integrante della value proposition di un mestiere ormai quasi solo per donne, pertanto mal pagato, ma che consente una migrazione di tipo quasi stagionale.
Da decenni si denuncia la scelta scellerata di aver fatto di alcuni pezzi di impiego pubblico uno strumento di ammortizzazione sociale. In molti comparti – penso alla sanità – è una storia del passato. Oggi dobbiamo chiederci cosa vogliamo dalla Scuola pubblica: se un sistema di welfare inter-territoriale che si basa sull’emigrazione soprattutto di donne sole, oppure un’infrastruttura educativa di sviluppo economico e sociale del paese. Difficile che le due cose possano davvero stare insieme. Il segnale che la rotta è stata cambiata arriverà quando si sceglierà di rimodulare la distribuzione del carico scolastico e di salutare i 100 giorni di fila di scuole chiuse. Perché tirando questo filo delle lunghe vacanze, si dovrà finalmente mettere mano a tutti i nodi che abbiamo scelto di ignorare sulla scuola pubblica.