#ValorePubblico

La scuola a giugno e l'equità dell'accesso ai servizi

La discussione in corso sul calendario scolastico (allungarlo o no fino a fine giugno?) è interessante non solo per gli addetti ai lavori, ma perchè ci permette di usare questo 'caso' per riflettere su come il disegno di un aspetto del servizio - in questo caso l'organizzazione del calendario scolastico - non è neutra rispetto agli obiettivi educativi e sociali del servizio stesso. Vediamo perchè. 

Il calendario scolastico, al tempi della mietitura. E del Coronavirus.

Mio padre ha finito la prima elementare nel 1949. Non a giugno, ma prima della fine di maggio. Anche se aveva solo 7 anni, era l'unico figlio maschio e toccava anche a lui dare una mano con la mietitura. Tutta la famiglia lasciava il paese, si trasferiva in campagna e si lavorava senza sosta dall'alba al tramonto. E come lui, la maggior parte dei bambini del paese, tranne i pochi figli di una piccola borghesia di commercianti e professionisti, che – accuditi da madri casalinghe – si godevano il bel tempo e quel poco di benessere in più. 

Quella scuola, che rispettava i tempi del raccolto, era inclusiva, per davvero. Perché ha permesso a mio padre e tanti altri figli di contadini di non essere tagliati fuori per via della loro estrazione sociale. Perché i figli allora si facevano anche per quello. Per mietere il grano. E così, fino alla fine della ragioneria (che mio padre fece in 6 anni, invece che in 5, perché "andare bene a scuola" è un valore relativo quando in famiglia sei l’unico che ci è andato) a metà maggio mollava i libri, si trasferiva in campagna e si univa alle attività familiari. In paese – e quindi a scuola – si tornava a ottobre, quando il grosso della vendemmia era ormai compiuto e le mandorle raccolte. Per questo, prima della riforma del ’77, i bambini che cominciavano la prima elementare erano chiamati ‘remigini’, perché la scuola apriva nel giorno di San Remigio, il 1° ottobre.  

Poi c'è stato l'abbandono delle campagne, la migrazione verso le grandi città industriali del nord, eccetera eccetera. Ma la scuola è rimasta inchiodata lì o si è spostata di poco dai tempi della mietitura e della vendemmia. 

Nel 2020 la scuola perde d’improvviso il ritmo della campagna per adattarsi a quello di un virus. Ma si adatta solo a metà. Chiude in inverno. Ma non riapre d’estate. Aspetta ancora una volta i tempi di mietitura e vendemmia, perché è a quelli che sono legati i contratti, le abitudini delle persone e i mille argomenti del ‘si è sempre fatto così’. Certo, ci saranno stati anche bambini e ragazzi più fortunati che si sono goduti il post lock-down al mare o in montagna. E magari coincidono con la minoranza di chi ha avuto pieno accesso a ogni sorta di dispositivo e banda larga per la DAD. E magari sono gli stessi che hanno beneficiato della presenza costante di un adulto in grado di accompagnare il processo di apprendimento con la DAD, arrivando dove maestri e professori non potevano più arrivare. Ma gli altri, la versione 2020 dei figli dei braccianti del dopoguerra, quei ragazzi non sono andati al mare. Hanno fatto fatica con la DAD, quando l’hanno fatta. Alcuni hanno lasciato. In sostanza, sono rimasti irrimediabilmente indietro. 

La versione 2020 dei figli dei braccianti del dopoguerra, quei ragazzi non sono andati al mare. Hanno fatto fatica con la DAD, quando l’hanno fatta. Alcuni hanno lasciato. In sostanza, sono rimasti irrimediabilmente indietro. 

Le ragioni del NO ad allungare il calendario e gli argomenti dell'equità di opportunità

Quello che rende la proposta di allungare il calendario scolastico un interessante caso di public management non è se è giusto o se è sbagliato in sé, ma l’idea del servizio pubblico ‘scuola’ che ne viene fuori. L’argomento cardine dei detrattori della proposta (la larga maggioranza dei sindacati della scuola) riguarda il fatto che non ci sia niente da recuperare: “abbiamo fatto la DAD”, dicono. Vero. E in alcuni casi i risultati sono molto buoni. Ma non ovunque. Non sempre. Negare questo aspetto tradisce una concezione burocratica della scuola intesa come prestazione erogata, invece che come opportunità di apprendimento offerta. Per non parlare dei bambini e dei ragazzi che sono stati più a lungo privati di tutto quello che abbiamo capito essere parte integrante dell’esperienza educativa della scuola (socialità, sviluppo individuale, ascolto e segnalazione di forme di disagio,…). Questa vista tradisce anche l’idea di una scuola che non è anche di chi impara, ma solo di chi ci lavora. Chi ci perde di più con la DAD?  

Come insegniamo ai nostri studenti nelle lezioni sulla progettazione dei servizi pubblici, è nel disegno delle modalità di fruizione, degli spazi, degli orari, dei giorni di apertura e di chiusura che si tutelano le opportunità sostanziali di accesso ai servizi e, quindi, la capacità di raggiungere o no gli obiettivi di policy prefissati. Prendiamo l'esempio di un altro argomento,  quello climatico: “a giugno fa troppo caldo per stare a scuola”. Anche questo punto è interessante, non tanto alla luce del fatto che con 209 miliardi da spendere per il futuro del Paese si potrebbe anche pensare di rendere le scuole climaticamente più accoglienti per tutte le stagioni. O esplorare altri spazi della città - magari all'aperto - dove fare lezione, come tanti insegnanti hanno già sperimentato la scorsa fine primavera. Ma per un altro fatto. Stupisca o no, le città sono piene di bambini e ragazzi che passano già la torrida estate tra le mura scolastiche o altri luoghi decisamente meno accoglienti, come palestre e altri spazi improvvisati, gestiti da privati che offrono centri estivi a costi variabili, unica soluzione per tanti genitori che lavorano: qualcuno ha notato che per due lavoratori dipendenti nemmeno sommando le ferie di entrambi si arriva a coprire interamente la pausa vacanziera dei figli? E quindi chi non ha nonni o altri supporti non ha alternative al centro estivo. Il “diritto alla frescura e senza mascherina” di chi stiamo esattamente tutelando? Chi beneficerebbe di una scuola pubblica aperta un po’ di più anche d’estate?  

La Scuola come leva strategica di sviluppo economico e sociale

Scegliere di rispettare i tempi della raccolta fu una grande forma di lucidità politica della scuola a vocazione universalistica, in una società agricola: racconta di una scuola capace di promuovere mobilità sociale dando accesso all’istruzione anche ai figli della classe contadina (che divennero poi i baby-boomer). Ma quella società non c'è più da un pezzo. La tragedia del 2020 (e seguenti...) ci offre l’incredibile opportunità di rimettere tutto in gioco. Non discutiamo solo se allungare fino alla fine di giugno o no le lezioni di quest’anno. Ripensiamo i tempi della scuola lungo tutto l’anno. Se prendiamo i dati Eurydice 2018, scopriamo che tra i paesi più grandi solo Romania e Turchia, oltre all’Italia, hanno più di 11 settimane di vacanze estive di fila. Germania e Regno Unito non superano le 7, Francia e Norvegia 8 o 9. Guarda caso, con Turchia e Romania condividiamo anche un altro primato: il più basso tasso di occupazione femminile. Possiamo ipotizzare che i due fenomeni possano essere in qualche modo correlati? Possiamo guardare anche ai tempi della scuola come fattore di produttività di un Paese

Certo, come insegniamo anche ai nostri studenti, i servizi si fanno con le persone. In questo caso, gli insegnanti. Difficile immaginare una riforma di tale portata che non li veda convinti di questo cambio e adeguatamente compensati. Ma anche profondamente coinvolti nella missione che oggi tocca loro, come fu per i maestri del Dopoguerra. Quelli che tolleravano che i ragazzi saltassero gli ultimi giorni di scuola per andare in campagna. Quelli che ne hanno convinti tanti a finire gli studi, nonostante gli ostacoli. Oggi possiamo (e forse dobbiamo) ridisegnare la scuola su misura per la società che siamo diventati e che vorremmo diventasse domani, abbassando il tasso di abbandono scolastico ed universitario. E occorre farlo pensando, anche questa volta, soprattutto a quelle ragazze e quei ragazzi per cui la scuola, e solo la scuola, può fare davvero la differenza per la loro vita adulta.

Come per mio papà, tanti anni fa. 

Solo Romania e Turchia, oltre all’Italia, hanno più di 11 settimane di vacanze estive di fila. Germania e Regno Unito non superano le 7, Francia e Norvegia 8 o 9. Guarda caso, con Turchia e Romania condividiamo anche un altro primato: il più basso tasso di occupazione femminile.

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