#ValorePubblico

Se lo spoils system non è il problema (né la soluzione)

Il dibattito di queste settimane, dentro e fuori dai giornali, sullo spoils system sta assumendo contorni sempre più surreali, per almeno tre ragioni.

(1) Una certa politica si abbandona ad affermazioni che – oltre ad essere fuori dai perimetri costituzionali – sono scorrette (e paradossali) sul piano dei fatti: non è vero che la politica non può scegliere chi vuole, piuttosto decide di scegliere sempre gli stessi.

(2) Una certa dirigenza si straccia le vesti per le vessazioni imposte dallo spoils system, laddove in alcun modo il modello italiano offre meno garanzie nel rapporto politica management di quanto accada nelle principali democrazie liberali del mondo.

(3) Mentre gli uni buttano la palla nel campo degli altri (la dirigenza in quello della politica, la politica in quello della dirigenza) la riflessione su come qualificare la classe dirigente del paese resta intrappolata nella cortina fumogena del dibattito sullo spoils system.

1. Perché non è vero che la politica non può scegliere

Le riunioni del Consiglio dei Ministri sono istruite da quelle del pre-Consiglio, cui partecipano i capi di gabinetto e degli uffici legislativi dei ministri. Un luogo di potere sostanziale, dove vengono imbastite le decisioni che il Consiglio ratifica. Negli ultimi 10 governi (e quindi negli ultimi 15 anni) si sono avvicendati 9 primi ministri, a seguito di stravolgimenti nei consensi senza precedenti per velocità e radicalità. Però, mentre i volti al consiglio dei ministri sono cambiati nel tempo, quelli del pre-Consiglio un po’ meno. Anche se da postazioni diverse, in questi 15 anni non c’è norma o provvedimento che non sia passato nelle mani delle stesse sei o sette persone, saldamente in sella nel tempo. Nonostante si tratti di posizioni che la politica può assegnare a chi vuole, si continua ad attingere ad una ristrettissima cerchia di grand commis d’état, che si scambiano di posto come in un grazioso valzer, senza alcuna sostanziale discontinuità al cambio del colore politico. Non è una critica: è un fatto. Evidentemente gli interessati hanno competenze tali da essere diventati indispensabili alla politica di qualunque partito: nel caso, non è certo la preparazione tecnica sui dossier che guida (impossibile identificare un cursus collegato alla specializzazione sulle policy), quanto la dimestichezza coi palazzi. Eppure, non mancano controesempi di capi di gabinetto e ruoli affini con percorsi di carriera più eterodossi (e meno asfittici) che hanno mostrato di fare bene. Quindi, prima di chiedere di poter nominare anche gli usceri (cosa che non esiste in nessuna democrazia liberale, come si dice nel prossimo paragrafo), occorre domandarsi perché non si occupano, per cominciare, gli spazi di scelta presenti.

2. Perché non è vero neppure che vige un regime di spoils system selvaggio

In tutte le democrazie liberali e democratiche i vertici amministrativi sono scelti dalla politica: possono variare la durata dell’incarico (più o meno direttamente collegata al mandato politico) o il bacino di reclutamento (all’interno di una shortlist tecnica o meno), ma da nessuna parte esiste un sistema pubblico dove si arriva ai vertici dell’amministrazione per concorso e a tempo indeterminato (per approfondire: qui pag 66 e per una sintesi qui e a breve anche qui). Anzi, l’assenza di forme di raccordo tra politica e management non solo sarebbe discutibile sul piano della legittimazione democratica, ma anche dannosa: quando la politica non può scegliere a chi affidare la visione del proprio mandato politico, comincia a costruire strutture parallele con effetti controversi sull’efficacia dell’azione pubblica. Questa facoltà della politica non solo è legittima e ragionevole, ma è onestamente molto contenuta. Siamo seri, non siamo ai tempi della Guerra di Secessione: le spoglie di cui parlava Marcy nel 1832 fanno riferimento ad un mondo che non esiste più in nessun paese di stampo liberare e democratico, Italia compresa. Quello attuale lo potremmo chiamare sistema delle spogliette: riguarda solo i ruoli apicali (e nemmeno tutti), non certo i dirigenti, né tanto meno i dipendenti pubblici, com’era nell’America di Marcy. Inoltre, il sistema nostrano prevede tutele sostanziali per la dirigenza: per i ruoli di vertice (a partire dai capi dipartimento di nomina fiduciaria, in giù) vige una regola non scritta – eppure ferrea – che è quella della non retrocessione e, pertanto, una volta ottenuto un incarico apicale, a prescindere dalla qualità della prestazione offerta (invalutabile, per come è organizzato oggi il lavoro dei vertici) ed anche dalla durata dell’incarico, si considera maturato un sostanziale diritto ad una posizione di pari livello. Si tratta di un sistema di iper tutela de facto che tutto sommato ha beneficiato della durata mediamente brevissima dei governi: più veloce gira la ruota, più aumentano le finestre di opportunità (insieme agli alibi di non aver avuto tempo di portare a compimento questo o quell’altro dossier). Il senso di smarrimento della dirigenza è largamente ingiustificato.

Siamo seri, non siamo ai tempi della Guerra di Secessione: le spoglie di cui parlava Marcy nel 1832 fanno riferimento ad un mondo che non esiste più in nessun paese di stampo liberare e democratico, Italia compresa. Quello attuale lo potremmo chiamare sistema delle spogliette

3. Lavorare sulla classe dirigente

Ora, le cose da fare, i correttivi da porre per migliorare la qualità del raccordo tra politica e management, nella tutela di tutti gli interessi in gioco, a partire da quello pubblico, non mancano. Ma non sono nelle norme. Si radicano nel cambio di prospettiva e nella pratica, a partire dal racconto che si sceglie di fare di questa storia. La sindrome della vittima che affligge una certa politica quando si dichiara sotto scacco di una burocrazia di intoccabili rischia di suonare come la parte di una recita a soggetto: gli spazi di raccordo ci sono, a volerli vedere ed agire. Quanto alla dirigenza, come ho già scritto qui, non è credibile la percezione di sé come subalterna alla politica, invece di complementare. È tempo di lavorare al consolidamento di una classe dirigente pubblica forte, capace, orgogliosa, responsabile, generosa e protagonista del rilancio economico, sociale e culturale del Paese. Qualche germoglio in giro c’è. Ma siamo ancora lontani da un approccio consapevole e sistemico. A fronte di una pluralità di singoli dirigenti tecnicamente preparati, coscienziosi e volenterosi, mancano luoghi, occasioni e pratiche per consolidare un’identità di ruolo che complementi la dimensione tecnica del mestiere con quella manageriale, che faciliti le collaborazioni tra amministrazioni e tra pubblico e privato. Che aiuti a superare i comportamenti difensivi e i campanilismi amministrativi. Che traduca le abilità dei singoli in risultati collettivi organizzati e duraturi. Regolata da una politica di gestione dei percorsi di carriera della dirigenza basata sulla specializzazione tecnica o funzionale, che allestisca i passaggi di consegne, la mentorship e orienti le traiettorie. Una dirigenza più competente e consapevole è anche più capace di costruire rapporti di proficua collaborazione con la politica e di aiutarla a vedere gli spazi di azione e a realizzarne le politiche, nel rispetto delle specificità della visione proposta. La qualità della dirigenza non è solo un tema di efficienza, ma anche – forse soprattutto – di democrazia.

 

Eppure, finché si penserà che il problema (o la soluzione) sia lo spoils system, di dirigenza pubblica si continuerà a non parlare affatto.

Regolata da una politica di gestione dei percorsi di carriera della dirigenza basata sulla specializzazione tecnica o funzionale, che allestisca i passaggi di consegne, la mentorship e orienti le traiettorie. 

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