#ValorePubblico

Pubblico o Privato? Ibrido!

L’esplosione della “biodiversità” nello zoo della PA

Quante sono le amministrazioni pubbliche in Italia? La verità è che sono un po’ come le leggi: tante, probabilmente troppe, ma nessuno sa esattamente quante. Né come stabilire un confine certo tra cosa è pubblico e cosa non lo è.

L’Istat aggiorna un elenco – ad oggi la fonte ‘più ufficiale’ sulla classificazione delle amministrazioni pubbliche – redatto sulla base delle indicazioni del Sistema Europeo dei Conti (SEC 2010) a sua volta interpretato a fini statistici da Eurostat (2016), “sulla base di criteri di natura prevalentemente economica, indipendentemente dalla forma giuridica assunta” si legge nella nota statistica. Infatti, se il problema non si pone con l’universo tradizionale di amministrazioni pubbliche (le Amministrazioni Centrali dello Stato, come la Presidenza del Consiglio e i Ministeri, o le Amministrazioni locali, come Regioni, Province Autonome, Province, Città Metropolitane e Comuni) più controversa appare la classificazione di tutto il resto. Ad esempio, sotto lo stesso cappello, quello di Agenzie fiscali, si trova l’Agenzia delle Entrate, ente pubblico non economico che assume dipendenti pubblici, insieme all’Agenzia del Demanio, ente pubblico economico, che assume personale fuori dal comparto pubblico. Ma è certo ancora più critica la definizione di un elenco unico di soggetti produttori di servizi economici, definiti come enti, ma anche “società o quasi-società controllate da un'amministrazione pubblica, a condizione che la loro produzione consista prevalentemente in beni e servizi non destinabili alla vendita, ovvero che i proventi derivanti da vendite o entrate ad esse assimilabili non riescano a coprire almeno la metà dei costi di esercizio” come recita la nota. Come si colloca l’universo locale delle società “in-house” sulla base di questo criterio, siano esse SpA, Società consortili, o altre forme ancora? E il mondo dei servizi pubblici locali che cede beni e servizi a fronte di tariffe non di mercato (penso al mondo dei trasporti pubblici locali)? Inoltre, se il criterio è economico e non giuridico, perché classificare in maniera diversa i soggetti deputati alla gestione dell’edilizia residenziale pubblica, che hanno modalità di finanziamento affini, ma forme istituzionali diverse (enti pubblici economici e non, SpA, etc…)?

L’esito è che ISTAT censisce circa 13.000 istituzioni in un elenco che include anche imprese pubbliche come SOGEI o CONSIP, ma non i corrispettivi regionali o locali. L’Agenzia per l'Italia Digitale, invece, che registra l'indice dei domicili digitali delle Pubbliche Amministrazioni ed anche dei gestori di pubblici servizi (IPA), individua quasi 23.000 soggetti. E l’elenco, a prima vista, appare incompleto.

Insomma, la confusione è tanta e meriterebbe l’intervento di un moderno Linneo delle scienze sociali.

Ma è anche vero che questa crescente biodiversità ci dice qualcosa di come si sta trasformando la PA e quello che le ruota attorno

Le evoluzioni del processo di ibridazione (un abbozzo)

Le ‘amministrazioni parallele’ sono sempre esistite e hanno conosciuto periodi di straordinaria gloria e prosperità, seguiti da altri di maggiore controversia e declino (si pensi alla storia di un ente come IRI). Ma è indubbio che il processo di spacchettamento, specializzazione, esternalizzazione e privatizzazione che ha investito tutto il settore pubblico occidentale (nel nostro Paese più evidente dai primi anni ’90 in avanti) consegna al nostro modello economico una pluralità di soggetti a metà tra pubblico e privato, dal livello centrale a quello locale, che si sono guadagnati la definizione di ibridi. Nella vulgata di stampo New Public Management, il ricorso a soluzioni di tipo privatistico era il frutto di una incrollabile – quanto apodittica – fiducia che “privato” fosse meglio di “pubblico”, per competenza, efficienza ed agilità. Agilità interpretata talvolta come ‘aggiramento’ di alcuni vincoli pubblici. Le aziende a capitale misto pubblico-privato erano uno strumento per portare competenze innovative dentro il perimetro pubblico, ma qualche volta anche un modo per aggirare i vincoli sugli appalti. La costituzione di nuove aziende speciali o imprese pubbliche locali una risposta a forme di gestione più flessibile dei servizi pubblici, ma non di rado un modo per compensare i vincoli di assunzione nel pubblico. E così via. La normativa, infatti, ha nel tempo disciplinato questo variegato settore alla ricerca di nuovi confini tra pubblico e privato con due finalità: la tutela del libero mercato e la tutela dell’esercizio sostanziale di funzioni pubbliche (controllo analogo, estensione della disciplina degli appalti pubblici, vincoli alle modalità delle assunzioni di personale, etc.).

Oggi le società a capitale misto hanno poche prerogative tipiche della PA, ma la presenza di quote pubbliche non è neutra nelle linee di indirizzo di tali soggetti, esposti alle fluttuazioni dei mercati e, allo stesso tempo, della politica. Inoltre, in quanto operanti in ambiti ad alto interesse pubblico, difficile considerarle funzionalmente estranee al settore.

Diverso è per le aziende di completa proprietà pubblica, che del privato sovente non hanno che la forma di gestione (come i contratti di lavoro e le regole contabili) e sono tipicamente operanti in contesti di non mercato (si pensi al mondo delle in-house). In questo caso la continuità con l’amministrazione pubblica è tale da rendere la ricerca del confine un fatto quasi puramente estetico.

Ibridi: tra rischio di opacità e potenzialità gestionali

Dei vari filoni di letteratura che con approcci diversi hanno studiato il fenomeno degli ibridi organizzativi, una chiave interpretativa promettente è quella che guarda a come tali aziende sono in grado di riconoscere e conciliare logiche di gestione tra di loro potenzialmente in contrapposizione: la ricerca dell’economicità con l’esigenza di rispondere a bisogni pubblici e sociali crescenti, la pianificazione strategica di lungo periodo con le esigenze a breve termine della politica, la cultura di tipo tecnico-industriale con quella pubblica-amministrativa, e così via. Sovente la via perseguita è stata quella di lasciare che una delle due logiche dominasse, non senza conseguenze. Quando prevale solo la logica pubblica, si perdono le potenzialità di una forma di gestione più agile e dinamica, come la possibilità di reclutare competenze tecniche qualificate o di un’organizzazione del lavoro meno ingessata nei vincoli dei contratti pubblici. Se la logica privata prevale su quella pubblica, si rischia di perdere l’orizzonte strategico stesso dell’azione aziendale, che nasce per rispondere a bisogni sociali e creare valore nell’intera filiera pubblica e non certo per distribuire utili.

Per tenere insieme logiche potenzialmente in conflitto, la letteratura suggerisce di costruire modelli di governance capaci di rappresentare i tensori in gioco. Non di rado, invece, i board si compongono in modo da dare soddisfazione più ad esigenze di rappresentanza istituzionale o politica, che alla necessità di dare voce alle due culture. Un altro strumento utile è rappresentato dalla progettazione di sistemi di performance management capaci di rendere tangibile non solo il valore economico generato, ma anche il valore pubblico e sociale coerente con la mission istituzionale dell’azienda ibrida. Infine, anche la gestione delle persone, dai sistemi di reclutamento a tutte le leve di sensemaking ed orientamento dei comportamenti, è un potente strumento per contemperare l’orientamento ad una gestione business-like, ma dentro perimetri di valore pubblico.

 

In conclusione: come evitare che ibridità diventi sinonimo di opacità? E anche: come evitare che le contraddizioni soffochino le potenzialità di una forma di gestione combinata che mostra potenzialità?

 

Ps: In realtà le domande sono tante. Come mi ha fatto notare la collega Veronica Vecchi, knowledge leader sui temi di PPP, occorre anche ragionare su “quanto questi modelli ibridi siano nei fatti vettore di innovazione e quanto, invece, un ostacolo alla competitività”. Oppure la riflessione di Eleonora Perobelli, che a questi temi sta dedicando il suo PhD, che si chiede quanto i processi di riforma del settore siano stati ispirati dalla consapevolezza “che un pezzo del valore che oggi genera il sistema pubblico passa per questi soggetti”. E un grazie anche a Niccolò Cusumano che nei tentativi di classificazione Linneiana propone di guardare alla presenza (o meno) della esposizione al rischio di domanda, e ai preziosi feedback sull'impianto teorico offerti da Giulia Cappellaro, una delle protagoniste della ricerca accademica internazionale sul tema! 

SHARE SU