Branded World

Management delle fonti del valore del brand: mai come oggi!

Può sembrare un argomento scontato…eppure ritorna sempre!

In questi giorni, due notizie – tra le tante - ci hanno raggiunto, inaspettate o già immaginate, paventate o apprese, smentite o confermate:

 

  • L’addio di Alessandro Michele dalla direzione artistica di Gucci. Alla guida del team creativo della maison dal 21 gennaio 2015, momento in cui tutti si sono domandati quale fosse il nome e quale il cognome di colui che sostituiva Frida Giannini! La notizia è stata pubblicata inizialmente su WWD-Women’s Wear Daily (22 novembre alle 6:52 pm; 12:52 italiane) e poi “battuta” da ANSA, AGI etc., nonché “distribuita” dal Gruppo Kering - attraverso le spokeperson a cui è “spettato” il commiato e con i mezzi delegati a trasferirla - e, a seguire, dalle diverse e numerose testate giornalistiche internazionali, nazionali, locali, economiche, specialistiche e così via, rintracciabile anche online, sui siti web delle medesime testate e sui social media.

 

  • La possibile fuoriuscita di Matteo Binotto (non so se questo sarà accaduto a partire da lunedì, giorno in cui “esce” il pezzo di Branded World!), smentita (15 novembre) ed ancora non confermata. Ex-direttore tecnico (2016), dal 2019: 4 stagioni da team principal (ossia il capo/boss di un team di Formula 1, che storicamente coincideva con il fondatore; ma oggi sempre meno se non più!) e 28 anni di lavoro in casa Ferrari (era entrato come stagista nel 1995). A Maranello, sotto di lui, rispondendo direttamente all’AD, la cosiddetta Gestione Sportiva che consta di più di mille persone, dedicate alla progettazione di monoposto complete di motore. Anche quest’ultima notizia è stata riportata da numerose testate giornalistiche internazionali, nazionali, economiche e specialistiche, letta online o sui social media.

 

Il punto d’osservazione qui proposto non è il gossip, i rumors, le eventuali smentite - che per chi ha avuto esperienze nei settori sportivi o dell’entertainment, sa che spesso coincidono con la verità (!) - e tantomeno l’intento è di soffermarsi su credibilità, attendibilità o affidabilità delle fonti informative. 

 

 

Il pezzo è un modo pretestuoso per “leggere e interpretare” tali “notizie” e tornare su di un tema caro e di assoluto rilievo per brand, brand equity e brand management: le fonti di valore della marca.

Il concetto di valore: una semplificazione

Non vogliamo addentrarci nel concetto di “valore”, che per più di duemila anni filosofi, sociologi, economisti e studiosi di management e ingegneria hanno cercato di definire, circoscrivendone gli specifici ambiti: l’individuo, i gruppi di individui, i Paesi, la società e le culture, l’economia, l’impresa, la produzione, il marketing e il branding.

 

Solo un accenno…

 

Il valore, in generale, può essere inteso come la capacità di un “qualcosa” (bene, servizio, attività, persona, manager, etc.) di soddisfare un bisogno o fornire un vantaggio (materiale o immateriale: nutrimento, riparo, trasporto, reddito, qualità della vita, conoscenza, prestigio, sicurezza, sicurezza fisica e finanziaria, marginalità/profittabilità, ecc.) a “qualcuno”. E’ fondante che tale valore, per esistere, venga percepito e ottenuto come tale dal destinatario. Partendo in alcuni casi dal singolo: consumatore o manager, ma accogliendo anche al suo interno in forma più aggregata: cluster di consumatori, generazioni, tecnici di produzione e così via, a cui si affiancano: CEO, financial-director, general manager, marketing manager o brand manager.

 

Nel caso del brand, tema caro a Branded World (!), ogni qualvolta si voglia significare il valore della risorsa immateriale, patrimonio e asset tra i più preziosi d’impresa: la marca, si incorre nella inevitabile domanda: valore per chi? Per mercato, consumatore, impresa? Considerando che a seconda del soggetto che ne può ottenere il vantaggio, si prospettano metodi, modalità di misurazione, scale e risultati molto diversi tra loro che - a fronte di approcci strutturati (o sistemi), metodologie, processi “orientati" alla valutazione (Brand Value Chain), cui si aggiungono metodi olistici o proprietari (BAV, Brand Finance, BrandZ, Interbrand,  etc.) - cercano di raggiungere un valore di marca (per alcuni approfondimenti https://www.sdabocconi.it/it/sda-bocconi-insight/luxury-brand-value)

 

 

Le “gestione” delle fonti del valore della marca

Pur permanendo metodologie e approcci molto differenti tra loro nel valutare e, soprattutto, nel misurare la brand equity, esiste unanimità e crescente attenzione nel ricercare le modalità, i processi, le persone (direttori creativi o team principal!) e gli strumenti (prezzi, tipologia di prodotti, comunicazioni, relazioni, etc.) non solo volti a “creare valore” (momentaneo, nel quarter, della gara, etc.) ma anche in grado di poter “gestire il valore” nel corso del tempo, rinunciando spesso alla trappola di cadere nella costante pressione di ottenere fama, successo, prestazioni e risultati di breve termine. Ciò comporta un lavoro “certosino”, spesso inviso, determinato dalla necessità di identificare driver o fonti generative della brand equity, rinnovandole, armonizzandole o ricercandone di nuove.

 

Del resto, ben sappiamo che l’evoluzione del comportamento dei consumatori, delle tecnologie, delle azioni dei concorrenti, delle normative e di altri fattori può incidere in misura significativa sulle sorti di una marca; a ciò si deve aggiungere la riconsiderazione della strategia da parte dell’impresa stessa, la quale può decidere di rivedere il perimetro del proprio business e/o di cambiare la direzione strategica, con la necessità di modificare marketing, modalità di commercializzazione dei suoi prodotti, branding!

 

Chiedersi se:

 

  • disincanti o disillusioni (es. nel 2022 la Ferrari è partita come meglio non poteva - 2 vittorie nelle prime tre gare - dando l’illusione di poter lottare per il Mondiale);
  • mancanza di risultati e insuccessi (es. Gucci ha continuato a sottoperformare rispetto al brand mix del gruppo; il bilancio stagionale della scuderia Ferrari sembrerebbe insufficiente rispetto a investimenti e prospettive);
  • relazioni e interrelazioni all’interno dell’impresa (es. l’isolamento di Binotto nella scuderia; la ricerca di Leclerc di un ruolo da prima guida e una posizione di privilegio in un team formato da due piloti forti e scelti quali “portatori di punti”);
  • scarso allineamento con i vertici aziendali (es. per semplice rifiuto o per aver disatteso le aspettative di crescita rispetto alle strategie designate per i cambiamenti e i ritorni sperati);
  • mancanza di fit sul brand-value (es. tra ritorno alle origini con tradizione, artigianalità e sartoria più classica vs. innovazione e modernità;stanchezza creativa per Michele?);

 

possano annoverarsi quali determinanti dei recenti riportati accadimenti non spetta a noi, anche se...

...siamo curiosi!

Occorre invece considerare che un’efficace gestione della marca richiede un approccio volto a gestire le fonti dell’equity, salvaguardando e auspicabilmente aumentandone il valore tramite diverse strategie (es. rafforzamento, rivitalizzazione, migration, sino anche alla sua dismissione). E non perché esista un determinismo biologico, come quanto avviene nella vita degli individui - a livello personale o professionale - con le varie fasi del ciclo di vita, ma perché esistono fattori e scelte sotto il controllo dell’impresa (strategie d’impresa, di marketing, per il brand mix e riguardo agli investimenti effettuati).

 

Obiettivo di brand come Gucci e Ferrari è mantenere posizioni di rilievo, in sintonia con un appassionato, un fan, un "consumatore" giovane o adulto, certamente sempre più vorace, volubile, distratto e in continua evoluzione, sapendo leggerne i mutamenti, spesso ancora in nuce, mettendosi perennemente in discussione e adattando al cambiamento la propria proposta di valore.

 

Ciò implica:

  • investire continuamente sul fronte dell’innovazione (di prodotto, di marketing, di management, di persone);
  • preservare e mantenere invariati significati e core-values ma mutarne i significanti;
  • seguire un continuo processo di armonizzazione con il contesto in cui si opera;
  • monitorare l’evoluzione;
  • aggiornare i significati

senza stravolgere radicalmente i valori di fondo della marca, pena la perdita di credibilità e di autorevolezza.

«La continuità rinforza l’identità di una marca ma l’evoluzione ne assicura la modernità. Queste due dimensioni non sono così opposte come si potrebbe credere. Esse esprimono piuttosto la tensione che attraversa ogni individuo e la società nel suo insieme» (Semprini, 1996: 98).

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