Branded World

Collab: machine, alliance, communication…o cosa?

Non intendo riproporre quanto già scritto in questo blog, tempo addietro, su argomenti diversi tra loro ma “comunque” attinenti alle collab.

 

Capsule collection, limited edition o ingredient branding, intesi come strategie, strumenti, iniziative, forme di …al cui interno erano sottesi, sovente non direttamente esplicitati, i concetti di collaborazione, co-branding, alleanze e così via

Collab: trend o machine?

Le Collaborazioni o, meglio, le “collab” (denominazione giovane e moderna!), sono un tema “in fashion”, nonché uno strumento o una strategia ampiamente sviluppatea in tempi recenti. Una ricerca condotta da Bcg e Altagamma (2019) ha indicato le collaborazioni come un «fenomeno» in ascesa, definendolo un vero e proprio «trend dominante», in particolare per i consumatori più giovani.

 

Le nuove generazioni (i Millennial e la Generazione Z) sembrerebbero richiedere proprio alle marche del lusso (forse proprio da ciò la crescita di interesse: il glamour è sempre glamour!) di reinventarsi, di modernizzare il loro passato e, al contempo, di rendere tali scelte quanto mai evidenti.

 

Le collaborazioni assumerebbero il ruolo di “chiavistello” per ideare prodotti unici che, da un lato, rifletterebbero il patrimonio genetico dei brand e, dall’altro, dimostrerebbero la volontà di interpretare le tendenze del momento attraverso processi “creativi” innovativi (Ostillio, Barbieri, 2022).

 

Attualmente non appare più un trend (!) sebbene, come spesso accade, la crescita smisurata e proprio la relativa varietà e l’ampia differenziazione nelle sue “formule” (se di formula si può parlare!) richiede che ne vengano chiariti confini e caratterizzazioni.

 

E’ interessante quindi osservare come essendo divenute le “collab” una formula quanto mai usuale e spesso necessaria per le marche, sembrano aver assunto il ruolo driver di una macchina: la “collaboration machine”, così come titolava, non meno di una settimana fa, l’articolo https://www.thedrum.com/search?articles%5Bquery%5D=lush dedicato a Lush (quale brand divenuto una collaboration machine) apparso su The Drum (rivista online su tematiche di marketing, comunicazione, branding etc.).

Proprio questo termine “machine” mi ha particolarmente incuriosito!

Orecchie tese ed occhi sempre aperti …

Collab: cosa?

Proviamo a connotare da un punto di vista strategico e manageriale le Collab!

 

Le collaborazioni rientrano nell’ampia categoria delle alleanze fra marche proprio perchè

«potenti strategie finalizzate al raggiungimento di una visione forte e unica, altrimenti non perseguibile quando le entità indipendenti lavorano da sole» (Gajda, 2005, p. 65) e, pertanto, lo sforzo collaborativo fra i partner viene identificato quale «via» per raggiungere obiettivi, a breve e/o lungo termine, che non sarebbero altrimenti raggiungibili qualora ognuna agisse in modo indipendente (Ostillio, Barbieri, 2022).

 

E proprio da ciò si genera la confusione spesso proveniente più dal “management” delle collab che dalla vera e propria collocazione di queste ultime all’interno dell’ampia brand machine. Poiché, poste le basi della brand equity, è naturale che le collaborazioni come qualsiasi altro strumento di marketing debba perseguire brand knowledge e risultati differenziali sul e dal mercato!

 

Alcune tra le principali questioni manageriali che occorre considerare – e su cui è necessario soffermarsi con estrema attenzione - attengono:

  1. i partner della collaborazione (altri brand, celebrity, designer, influencer, non-profit organization, giusto per citare quelli con cui più diffusamente si realizzano tali forme);
  2. il focus o l’oggetto della collaborazione (il lancio di un nuovo prodotto o la realizzazione di un nuovo progetto, una limited edition, una campagna pubblicitaria o di comunicazione, una campagna di social o influencer marketing, una trasmissione televisiva, etc.) che rientrano in categorie contrattuali o tipologiche, nonché ambiti del diritto molto differenti tra loro (es. co-branding, joint-advertising, licensing, copyright) e richiedendo conoscenze e competenze sempre più specializzate e specializzanti (es. ricorrenti i riferimenti a IP, asset, diritti d’autore);
  3. l’obiettivo o le finalità, perseguibili nel breve o nel lungo termine e secondo sequenze e pianificazioni – all’interno di machine (!) - in grado di produrre gli effetti desiderati nel corso del tempo, breve o lungo che sia;
  4. il fit (che non è una brutta parola!) o consonanza percettiva della collaborazione, quanto mai necessaria e di diversa natura a seconda di prodotto, category o, più in generale, di business. Quest’ultima è una delle decisioni centrali in una collaborazione, partendo dal presupposto che dovrebbe indirizzare la scelta del (o dei) partner. Per chi si occupa di marketing e branding, è quanto mai necessario valutare il livello di consonanza percettiva (fit) tra i partner e il ruolo rilevante che risiede nella scelta degli “alleati”. Il fit rappresenta proprio quel livello di compatibilità e somiglianza tra le marche che viene percepito dai consumatori e può assumere differenti declinazioni (category fit o brand fit a cui ultimamente, si è aggiunto anche il sensory fit, derivante dalla crescente richiesta di esperienza da parte dei consumatori!)
  5. la misurazione dei risultati strettamente connessi agli obiettivi perseguiti e “valutati” in linea con forma, tipo di iniziativa impiegata, formula e non affidandosi a ciò che spesso, in modo erroneo, viene denominato: successo!

 

Vi lascio questa domanda...

...ma rispetto a tutte le collab che ci avvolgono, in diverse forme e per diversi settori e categorie, il loro “vero” successo da cosa dipende?

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