#ValorePubblico

Sui giovani d’oggi ci… ripenso su?

Molti dei luoghi comuni che si sentono sui giovani nel dibattito in merito ai lavoratori che mancano nel settore del turismo si cominciano a sentire anche nella PA. Parto da alcuni stralci di conversazioni con dipendenti pubblici boomer alle prese con i nuovi assunti – in qualche caso già ex – raccolti a margine di una lezione, per condividere qualche spunto sul potere dirompente di questa preziosa novità.

Qualcosa è cambiato

- Restano qualche mese, poi spariscono. Perché hanno vinto un altro concorso dove li pagano di più.

- O perché sono più vicini a casa, magari al Sud, dove la vita costa molto molto meno.

- Non è detto: da noi un ragazzo è andato in un Comune [dal Ministero della Giustizia], dice che il lavoro gli piaceva di più, pure se lo pagano di meno.

- Alle volte nemmeno sappiamo perché se ne vanno e dove. A tanti non piace proprio il lavoro. Ma cosa si aspettavano?

- Il problema è che arrivano che hanno più lauree e master di un professore e non hanno l’umiltà di imparare il mestiere.

- Oppure pensano che i titoli diano diritto automaticamente a passare davanti a tanti che sono lì da vent’anni?

- Però è vero che li hanno assegnati senza tanto tenere conto delle competenze e delle precedenti esperienze. Alle volte nemmeno della vicinanza a casa. Insomma, forse li hanno assegnati un po’ a caso. 

 

Ho raccolto queste conversazioni nel corso di una lezione con dirigenti e funzionari con ruoli di gestione o coordinamento di gruppi di persone presso Comuni, Asl, sedi territoriali dei ministeri. Insomma, la solita grande eterogeneità della PA. Faccio questa lezione nello stesso corso da un po’ di anni. E noto che qualcosa è cambiato. Si stanno affacciando discorsi nuovi: ad esempio, si parla dei nuovi colleghi. Le decine di migliaia di nuovi ingressi, avvenuti per posizioni a tempo determinato e indeterminato, si traducono nelle amministrazioni in un’esperienza per molti del tutto inedita: ripensare il lavoro alla presenza di nuovi assunti. Finalmente – pensavo che avrei sentito esclamare. È un pasticcio – è quello che invece sembra emergere. A pensarci bene, sono sorpresa solo a metà. Lo abbiamo detto e scritto in molti che le nuove assunzioni, senza un ripensamento dei modelli organizzativi, sarebbero servite a poco. Ecco che ora questi ingressi prima tanto richiesti, poi poco gestiti a livello di singola amministrazione e di singolo ufficio, stanno creando una certa confusione. Generativa, se l’effetto dirompente di questa novità sarà colta con consapevolezza e anche un po’ di coraggio. Oppure esiziale, se si perderà questa occasione di trasformazione.

Tre discontinuità da tenere presenti

Stiamo assistendo ad un piccolo (o forse grande?) sotto-osservato terremoto sotto i piedi della PA che assume. Le faglie sono almeno tre.

La prima riguarda la trasformazione del funzionamento del lavoro pubblico: non ci siamo accorti che siamo già passati dal mercato del posto fisso al mercato dei talenti. E quindi non ci siamo attrezzati a dovere per vincere la competizione. Infatti, se prima il bene “posso fisso” veniva offerto dalla PA in un mercato in cui la sua domanda era pressoché inesauribile, ora le regole del gioco sono già cambiate. Alle PA servono nuove competenze, ma non sanno bene quali, dove sono, come fare ad attrarle e a selezionarle, laddove l’offerta più qualificata si fa sempre più ristretta. E intanto, nonostante lo sblocco del turnover, le procedure semplificate e le nuove norme sulle competenze nei concorsi, le amministrazioni fanno fatica a coprire i posti messi a bando: sembrano piccoli anfibi arenati sulla riva, perché continuano a muoversi come se fossero ancora nell’acqua, invece di imparare a saltare nella terra ferma.

La seconda riguarda la trasformazione sulle comunità organizzative delle nostre PA: sta venendo meno l’omogeneità culturale che ha caratterizzato per decenni il pubblico impiego. I nuovi assunti hanno un rapporto più disinvolto con l’autorità e con le regole, cui sono più inclini ad allinearsi se ne capiscono il fondamento. Sono immersi in una vita largamente automatizzata e disintermediata dalle piattaforme digitali: alcune pratiche ancora di stampo novecentesco generano loro una sorta di choc anafilattico. No, che non le vogliono imparare. Le vogliono fare esplodere. E poi, sì: in media hanno studiato e viaggiato di più. Insomma, tutti gli ingredienti per rischiare che i pochi giovani neoassunti siano rinchiusi nel confino organizzativo che meritano i pericolosi sovversivi.

La terza, conseguenza della seconda, riguarda il grande disorientamento che vivono i dirigenti che si trovano a guidare per la prima volta team misti dal punto di vista generazionale: assecondare la richiesta di spazio, visibilità e protagonismo dei nuovi assunti? O soffocarla, insieme al potenziale generativo connesso, per non turbare l’ordine costituito? Quanto sono attrezzati i capi a gestire i possibili – e fisiologici – conflitti che nascono in organizzazioni che diventano – per fortuna – un po’ più plurali e diverse?

Tre spunti di riprogettazione

Consapevole del fatto che non ci sono soluzioni pret-à-porter, qualcosa per cogliere l’opportunità offerta da questa fase si può fare.

C’è un punto zero, di cui però ho scritto talmente tanto anche su questo blog e che quindi non ripeto, che riguarda come fare concorsi che abbiano senso e non trattino il reclutamento come una procedura di acquisizione di una fornitura di bulloni. Pertanto, il mio punto uno riguarda quello che in letteratura viene chiamato l’Employer Branding, che possiamo definire come l’insieme di caratteristiche e qualità, tangibili e intangibili, che rendono distintiva un’organizzazione per il tipo di esperienza lavorativa che offre ai suoi dipendenti e che la rendono attrattiva come luogo di lavoro per un preciso target di soggetti in possesso delle caratteristiche ricercate. Se oggi tutto il dibattito attorno al tema della capacità di attrarre e trattenere i talenti si ridurrà ad una mera questione di emolumenti – tema pur centrale, soprattutto per le grandi città dove il costo della vita è più alto – avremo perso l’occasione per dirci qual è il valore che offriamo a chi sceglie di lavorare per il nostro ente.

 

Il secondo, connesso al primo, riguarda il ripensamento del lavoro non più come posto, o set di attività da svolgere. E nemmeno più come una mera sommatoria di obiettivi da raggiungere. Ma come ad un’esperienza complessa, che coinvolge la persona in termini di identità e diversità, autonomia e interdipendenza, ambizioni e bisogni. Un’esperienza da ripensare, disegnare e orientare con consapevolezza e professionalità, sulla base di una condivisione franca delle risorse e dei vincoli dell’organizzazione. La progettazione organizzativa, l’introduzione delle tecnologie, gli stili di leadership definiscono la natura dell’employee experience, su cui crescono gli investimenti delle grandi aziende: siamo certi di poterne fare a meno nelle nostre PA?

Se i primi due sembrano spunti troppo sofisticati e lontani – eppure tra qualche anno sono certa saranno diventati patrimonio comune – un terzo suggerimento più pratico può essere un punto di partenza per operazionalizzare i primi due. Vietato per i nuovi assunti cominciare a lavorare senza aver prima partecipato ad un programma di on-boarding che coinvolga tutta l’organizzazione. Per fortuna sono molti ormai gli enti – soprattutto i più grandi – che organizzano cerimonie di accoglienza per i neo- assunti oppure piccoli programmi di formazione su aspetti di base. Ma non di rado arrivano dopo mesi che la persona ha già cominciato a lavorare o si risolvono in momenti più celebrativi e retorici che occasioni di induction training vero e proprio. Di solito l’argomento a discolpa è che non c’è tempo. Ma il tempo, per le cose cui non si attribuisce valore, rischia di non esserci mai. Eppure, si tratta di uno strumento molto efficace, non solo verso i nuovi assunti, ma anche per tutta l’organizzazione, chiamata a raccontarsi e a dirsi chi è e chi vuole diventare – anche grazie ai giovani in arrivo – tra desiderio e realtà.

 

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