#ValorePubblico

Saper dire di NO (frammenti di discorsi con un gruppo di PO)

Ai politici, quando chiedono cose che non si possono fare. Ai cittadini, quando pretendono cose che escono dalle competenze della PA. Ma anche ai collaboratori e ai capi. Saper dire di no, è una competenza o una forma di rigidità?

 

PO: Line manager a scadenza

Lo spunto per questa riflessione arriva nel mezzo di una lezione con un gruppo di PO (posizioni organizzative) di un grande comune, destinatarie di un programma di sviluppo manageriale. Le PO sono una figura interessante nell’architettura organizzativa degli enti locali. C’è chi li compara ai quadri, per tipologia di mansioni e funzioni organizzative. Ma, a differenza dei quadri, la PO è un incarico a tempo determinato e non una categoria contrattuale di appartenenza. Negli enti locali questo istituto è stato largamente utilizzato non solo come strumento per aumentare la retribuzione degli incaricati – come è successo altrove – ma come effettivo riconoscimento di una responsabilità gestionale esercitata su un servizio specifico, con chiare attribuzioni in termini di obiettivi, persone e risorse assegnate. Negli anni dell’assottigliamento del pubblico impiego, enti locali in testa, la riduzione del numero dei dirigenti combinata al sovraccarico dei segretari comunali su un numero di enti crescenti è stata fronteggiata da una altrettanto crescente responsabilizzazione delle PO. Sebbene nella pratica le PO siano nella maggior parte riconfermate a fine incarico – e non è una patologia, se chi le ricopre svolge bene il proprio compito – il tempo determinato della posizione non è un fattore neutro nel funzionamento organizzativo. Non si può certo parlare di “precarizzazione” in quanto la PO si assegna ad un funzionario di ruolo, che – in caso di non conferma – torna a svolgere il suo mestiere di funzionario, con tutte le garanzie connesse, benché con stipendio e responsabilità ridotte. Ma se da un lato questo modello di flessibilità è coerente con la natura manageriale dell’incarico, dall’altro stride con la presenza di una dirigenza di ruolo dove questa dinamica di flessibilità non è contemplata. Questa premessa per dire che: forse non è un caso che il tema dello spazio del no sia emerso proprio in un’aula di PO.

Quando serve dire di NO

Che al cuore del lavoro manageriale pubblico vi sia la capacità di combinare norme, politica e organizzazione lo abbiamo detto varie volte su questo blog. Questo lavoro di ricomposizione costante, frutto della capacità di leggere e interpretare i confini delle regole, riconoscere e rispettare gli intendimenti della politica, progettare soluzioni che rispettino efficienza, efficacia ed economicità, richiede la competenza di dire qualche no. Anche quando si è soggetti ad un incarico a termine. Anzi, a maggior ragione. Non sto parlando, infatti, dei no detti in virtù di richieste in qualche modo ritenute illegittime (fisiologia necessaria), né tanto meno di quelli in chiave difensiva e dettati dalla c.d. paura della firma (patologia evitabile). Ma di quelli che nutrono ed arricchiscono relazioni professionali basate sulla fiducia reciproca.

 

Chi lavora con la politica sa che questa ogni tanto si innamora di soluzioni che suonano bene sui giornali, ma che rischiano percorsi ben più incerti sul piano dell’implementazione e conseguente effetto boomerang in termini di consenso. Questi rischi li vede più facilmente un tecnico. Eseguire senza mettere in guardia chi decide, senza sensibilizzare rispetto al rischio intravisto, senza proporre alternative valide, forse non è sbagliato sul piano della forma per chi si trincera dietro un’interpretazione letterale della separazione tra indirizzo e gestione. Ma quanto è una postura auspicabile? Chi sceglie di giocarsi un no su questo terreno, offre a sé e alla politica la chance di costruire spazi di alleanza duratura, di collaborazione proficua, di reciproco riconoscimento e, forse, anche di apprendimento: la politica – transeunte per natura – ha bisogno del sapere tecnico consolidato che sa fare la cernita delle “buone idee sulla carta” e le buone idee.

 

Ma i no servono più in generale anche ai capi più esigenti. Quando dall’alto piovono attività che si affastellano vorticosamente al punto da smarrire il senso della priorità, quando i membri della struttura sono strattonati da mille richieste tutte urgenti, senza un’ipotesi solida rispetto alla loro importanza, occorre mettere ordine. E, se serve, qualche argine. Questo ordine, infatti, si assicura difendendo l’agenda della propria squadra anche dagli inconsapevoli e perfino autolesionisti tentativi di sabotaggio che arrivano talvolta dai livelli gerarchici superiori. Questi no tutelano l’affidabilità propria, del proprio team e, in ultima analisi, di tutta la struttura, quando sono finalizzati non già a difendere comode routine, ma ad assicurare di riuscire a portare a termini gli impegni presi nei vincoli di tempi e costi pattuiti.

Come dire di NO

Dire di no è una competenza complessa, perché richiede più di una capacità. La prima è la capacità di visione sistemica: la conoscenza solida dei contesti specifici, unita alla profondità di sguardo, permette di vedere quello che gli altri non vedono, di prefigurarsi quello che altri sottovalutano.

La seconda è la capacità di ascolto: non essere frettolosi nel liquidare la prospettiva dell’altra parte, interrogarsi con grande libertà mentale sugli spazi di convergenza aiuta a ridurre il rischio di irrigidirsi su posizione preconcette e reciproche incomprensioni.

La terza è la capacità negoziale: dire no, non basta quasi mai. Serve un’alternativa, una controproposta, serve lo sforzo di mostrare quali sono i vantaggi allargati di quel no, affinché sia compreso l’intento non già auto-difensivo, ma strategico.

Infine, serve una certa dose di assertività, ovvero la capacità di comunicare con forza e pacatezza il proprio punto di vista fino in fondo, pronti ad assumersi le conseguenze in termini di disapprovazione e di potenziale conflitto che genera.

 

Anche in termini – si potrebbe contestare – di non conferma della posizione? A questa domanda risponderei con un’altra: che senso ha assumere un incarico gestionale se chi me lo affida non si fida delle mie valutazioni? Non è una domanda retorica, ciascuno il senso lo trova (o non lo trova) per sé.

Resta il fatto che poter dire di no non è solo un segno di responsabilità, ma per qualcuno è anche una forma di libertà senza prezzo.

 

 

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