#ValorePubblico

Prendere sul serio la sfida del Capitale Umano nella PA

Pubblico impiego è un’etichetta superata. Oramai si è affermata quella di capitale umano nella Pa. Ma rischia di essere solo un’operazione maquillage, se non si agisce in fretta per qualificare il lavoro pubblico.

 

In principio fu il personale.

Poi questo termine dal sapore amministrativo e senz’anima fu sostituito da quello di risorse umane: se la nozione di risorsa riporta l’attenzione alla sua scarsità e, quindi, preziosità, l’aggettivo umane contiene l’appello a non reificare il lavoro, a non ridurlo alla stregua di una fornitura di materie prime e a ricordare la lezione appresa dalla teoria delle relazioni umane (quella che ci ha insegnato che i lavoratori pensano e agiscono in virtù delle proprie preferenze, inclinazioni, motivazioni e non sono macchine). Ma anche risorse umane è una definizione caduta in disgrazia e ne è la prova l’avvicendarsi delle nuove etichette della funzione collegata: people operations o talent management tra le più diffuse. Questo ennesimo switch è successo nel privato quando nella Pa italiana si cominciava timidamente a superare la nozione di amministrazione del personale.

 

Il termine capitale umano, invece, viene dall’economia, più che dal management: si può ricondurre ai lavori del premio Nobel Theodore Schultz, studioso delle economie in via di sviluppo, che negli anni ’70 introduce il concetto per spiegare perché istruzione e ricerca sono gli ingredienti che servono per raggiungere la produttività dei paesi del primo mondo. La nozione stessa di capitale umano genera un corto circuito nella visione che vede capitale e lavoro in conflitto tra loro.

È una visione che ci costringe ad ammettere che c’è lavoro e lavoro: quello scarsamente qualificato resta una risorsa a basso valore aggiunto e facilmente sostituibile; il lavoro che, invece, si basa sulle competenze tecnico-specialistiche, quelle che solo una solida infrastruttura di istruzione, formazione e ricerca riescono ad assicurare, assomiglia più ad un investimento in tecnologia.

Schultz dimostra che è questo il fattore economico che qualifica la produttività. E nella PA? Per spiegarla “à la Schultz”, potremmo dire che la PA è organizzativamente un territorio in via di sviluppo, ovvero scarsamente infrastrutturato in punto capitale umano: per farne decollare la produttività non bastano gli investimenti in tecnologia, serve una vera rivoluzione in termini di competenze. E questo lo abbiamo davvero detto e scritto tutti in questi anni. Ma a che punto siamo?

 

Siamo molto lontani dal poter definire la PA italiana ad alta intensità di capitale umano: il lavoro resta ancora scarsamente qualificato e negli anni il trend è peggiorato. Un primo dato in tal senso riguarda il titolo di studio:

i laureati non arrivano al 29% nei ministeri e sono poco sopra in Regioni ed enti locali (30%). E se si considera un titolo di secondo livello (laurea magistrale, master o dottorato), la percentuale scende ulteriormente al 20%, a fronte del 45% in Germania e il 36% in Francia.

Colpa del blocco del turn-over, si potrebbe dire. Peggio: i pochi ingressi gestiti in questi anni hanno peggiorato il profilo di competenza delle amministrazioni pubbliche: come hanno fatto notare i colleghi Claudio Buongiorno Sottoriva e Gianmario Cinelli in uno studio pubblicato nel 2022 su Risorse Umane nella Pubblica Amministrazione, in 20 anni nella PA locale non solo si è assistito ad una perdita netta del 30% di personale, in più le poche assunzioni sono servite ad assumere profili scarsamente qualificati (categoria C), che sono passati dal pesare il 36,9% del totale al 48,1% (ovvero, quasi la metà dei dipendenti) a fronte di un dimezzamento della dirigenza. Altro che capitale umano: si è perso terreno prezioso, a forza di assumere solo educatori e vigili (in luogo di modelli di gestione più lungimiranti e meno assorbenti sul piano del reclutamento).

 

In questi ultimi tre anni di PNRR – grazie alle risorse eccezionalmente disponibili – si gioca la partita definitiva che decreterà se saremo o no stati in grado di traghettare l’impiego pubblico da alta intensità di lavoro poco qualificato ad alta intensità di capitale umano. Solo di qui passa la sfida della produttività: premi o incentivi sono inutili, senza questo investimento.

Per riuscirci servono due cose.

 

La prima è una politica di reclutamento che inverta la rotta sopra descritta e punti a smettere di assumere profili scarsamente qualificati e, a tendere, sostituibili da un algoritmo.

La seconda è una strategia di investimento sulle competenze dei dipendenti ‘autoctoni’ – a partire dalla dirigenza – che combini qualità degli interventi con ampiezza delle misure. Su questi due obiettivi, la partnership con i principali e più qualificati operatori della kwoledge industry è necessaria: da un lato il mondo delle università e dei centri di ricerca, che non può limitarsi ad elargire crediti e titoli di studio a buon mercato, ma deve qualificare un’offerta specifica per formare e pre-filtrare i migliori candidati ai concorsi pubblici di domani, ma anche per rispondere con programmi ad hoc ai bisogni di conoscenza applicata dei dipendenti già in ruolo; dall’altro, anche il comparto della consulenza può essere uno snodo cruciale, se invece di assecondare la richiesta di offrire body rental d’alto bordo punta ad essere vettore di innovazione e sviluppo su tutto il ciclo HR negli enti pubblici.

 

Per qualificare una partnership vincente serve certamente una regia alta del processo e delle risorse in campo. Ma poi occorre anche una diffusa ossessione in tutti gli uffici del personale (o come li vogliamo chiamare) in giro per le amministrazioni pubbliche grandi e piccole del paese per fare di questi anni, quelli della svolta.

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