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Perché studiare la PA: tre buoni motivi

Oggi parte, per la classe assegnata a me di otto in totale che procedono in parallelo, il corso “Economia e Management delle Amministrazioni Pubbliche”. Avrò davanti – fisicamente e online – circa un centinaio di studenti del secondo anno (più o meno ventenni) del nostro corso di laurea triennale in Economia e Management. Come spiegare loro perché ha senso studiare il funzionamento delle amministrazioni pubbliche?

Premessa: se ha senso studiare o no qualcosa, lo si scopre alla fine

Il programma prevede per la prima lezione il patto d’aula (obiettivi, metodi e regole del gioco), nonché la definizione dell’oggetto: in questo corso si studia il funzionamento delle istituzioni pubbliche da una prospettiva che parte dall’economia aziendale e attinge in maniera interdisciplinare a chiavi di lettura che arrivano da altre scienze sociali, come la scienza politica, l’analisi delle politiche pubbliche, la sociologia dell’organizzazione, le valutazioni economiche, etc… In più, abbiamo ricevuto indicazione di spiegare agli studenti del secondo anno il perché è richiesto lo studio di questo contenuto. Ho riflettuto tutto il week end sul senso di questa domanda, che si presta per altro a mille risposte. Poi mi sono chiesta se questa domanda gli studenti se la fanno. E (se sì) come se la fanno e che criteri adottano per valutare cosa c’entra e cosa no col loro percorso di studio. Lo scoprirò solo dopo aver cominciato la prima lezione. Intanto, penso sia utile mettere a fuoco perché (anche per chi non ha mai provato alcun interesse verso il settore pubblico, la politica e le cose della comunità) capire come queste funzionano può tornare utile. Consapevole del fatto che, di solito, se ha senso o no studiare una certa cosa, lo si scopre solo studiandola.

1. Di qualunque cosa vi occuperete, avete alte probabilità di avere a che fare con istituzioni pubbliche.

La PA intermedia poco meno della metà del PIL (48,5%, secondo OECD 2021, Dati: 2019), poco meno di Francia (55,3%) e poco più della Germania (44,9%). Di questa quasi metà PIL, una fetta che nel 2019 valeva 170 miliardi di euro (il 21,2% del totale della spesa pubblica), è ceduta al mercato in cambio di beni e servizi. In altre parole, si tratta di 170 miliardi di opportunità di business per le imprese. A giudicare dall’impennata della spesa pubblica post 2020 e grazie alle risorse introdotte dal PNRR, questa fetta è destinata ad ingrandirsi. La PA compra cose molto diverse: da beni ad alto contenuto tecnologico (ad esempio le biotecnologie applicate in ambito sanitario o le tecnologie per la difesa e la sicurezza) e frutto della ricerca privata (si pensi ai farmaci, a partire dai vaccini), fino alle più tradizionali opere pubbliche (come strade, ponti ed anche scuole, ospedali, case pubbliche). Ma la PA compra anche servizi: non solo quelli necessari al proprio funzionamento (servizi IT, di consulenza e professionali, di facility, …), ma anche a valenza esterna: a valle dei processi di esternalizzazione (ne parleremo…) la PA compra anche servizi pubblici destinati all’utenza, dal settore sanitario e socio-sanitario (le RSA, ad esempio), a servizi sociali ed educativi (le strutture diurne per disabili o gli asili nido), di trasporto pubblico, igiene urbana, e così via. Quindi, la probabilità di avere a che fare con la PA come cliente non è così remota.

Ma pure se così non fosse, le imprese sono largamente influenzate dalle politiche pubbliche, non solo in virtù dell’evoluzione delle norme e dell’erogazione di finanziamenti, ma anche perché sono destinatarie di specifiche linee di servizi ad esse dedicate: dai servizi a supporto della creazione e sviluppo d’impresa (le start-up), dell’internazionalizzazione e dell’aumento della capacità di esportazione, fino ai servizi funzionali a sostenere la transizione digitale e green delle imprese. Le Camere di Commercio, ad esempio, sono enti pubblici che hanno anche questa missione e sono governate da imprenditori, che si eleggono tra loro, per indirizzarne il funzionamento. E spesso si innervosiscono, quando scoprono che la PA non funziona come la loro azienda. Non necessariamente peggio. Solo, diversamente.

2. Nella PA potreste anche, un giorno, lavorarci

Ok, tutte le statistiche descrivono la scarsa attrattività del lavoro pubblico per i laureati più qualificati. E, tra le principali ragioni, vi è una conoscenza scarsissima dei mestieri che si svolgono nella PA. Infatti, ci sono alcune carriere molto interessanti che si possono fare quasi solo nel settore pubblico o affini (terzo settore): penso alla carriera diplomatica o nelle istituzioni internazionali (ONU e Istituzioni Europee), ma anche nel mondo della cooperazione internazionale e della tutela dei diritti umani. Larga parte delle carriere legate alla ricerca di base sono realizzate presso istituti pubblici (o affini), a partire dalle Università insieme al mondo degli enti di ricerca, degli IRCSS. Restringendo il campo all’economia, il processo di managerializzazione delle amministrazioni pubbliche (altro argomento che sarà largamente trattato nel corso del programma) ha favorito la creazione di una nuova classe dirigente per la PA costituita non più solo da fini giuristi, tutti dediti all’interpretazione ed esecuzione delle norme, ma anche di manager pubblici. Queste figure si sono imposte soprattutto negli enti più direttamente coinvolti nella produzione di servizi pubblici, dove gli aspetti legati alla complessità delle operations e alla programmazione e controllo dei costi è cruciale: è il caso delle aziende sanitarie, degli enti locali, delle agenzie fiscali, degli enti previdenziali. Ma è sempre più una competenza necessaria anche per gli enti culturali e per le istituzioni nel settore dell’education, università incluse. E la lista potrebbe continuare. Per questa ragione, le riforme che si sono succedute hanno reso meno ostico l’accesso ai ruoli manageriali (soprattutto a quelli di vertice) anche dall’esterno, attraverso forme contrattuali più simili a quelle del settore privato. Gli stipendi sono competitivi per i ruoli intermedi, lo sono un po’ meno – se commisurati alle responsabilità – per quelli di vertice. Ma in compenso si gode del privilegio di poter contribuire, col proprio lavoro, a rendere i servizi pubblici migliori. In SDA Bocconi ne incontriamo molti e le loro storie professionali sono sempre diverse e appassionanti (ad esempio, questa).

3. Per partecipare al dibattito pubblico in maniera consapevole, oltre gli stereotipi.

Se i punti 1 e 2 non bastano, ne resta un terzo. Il buon andamento dell’amministrazione, per citare la Costituzione, non è solo una condizione ambientale necessaria allo sviluppo economico e sociale. È anche un ingrediente di democrazia. Istituzioni pubbliche discreditate e delegittimate prestano il fianco a discorsi anti-istituzionali e, alla lunga, anti-democratici. Negli anni, il discorso anti-pubblico ha legittimato cure dimagranti draconiane del settore, con esiti controversi (penso allo stato di sotto-finanziamento della sanità pubblica alla vigilia della pandemia del 2020). Ma la fiducia – anche verso le istituzioni pubbliche, come verso qualunque altra cosa – si basa su una conoscenza non superficiale, capace di andare oltre lo stereotipo. E nei confronti della PA gli stereotipi non mancano. Conoscere il funzionamento delle amministrazioni pubbliche e le categorie con cui si può orientare la sua gestione aiuta anche a comprendere meglio il dibatto sulla sua riforma, evitando di cadere facile preda di luoghi comuni su inefficienze indiscriminate, fannullonismo di mestiere, opacità organizzata e parzialità sistematica.

La PA è l’altra metà della mela. Si cresce, o si cade, insieme.

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