
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 21 mag 2025
- 17 giorni
- Blended
- Italiano
Fornisce le conoscenze e gli strumenti fondamentali per un effettivo esercizio della funzione di direzione della PA.
L’on-boarding, che descrivere la pratica di far salire a bordo, è metafora ormai consolidata per descrivere l’insieme delle iniziative rivolte ai nuovi assunti e finalizzate ad accelerare la loro integrazione nell’organizzazione, offrendo loro le informazioni, la formazione e il supporto necessario. In assenza di chiari percorsi di on-boarding aumenta il rischio di lasciare i nuovi assunti naufragare per un lungo periodo nelle strutture cui sono assegnati, di vedere la loro motivazione spegnersi ed aspettative verso il nuovo lavoro infrangersi, per poi cercare la fuga altrove.
Eppure, mi dice la direttrice di una struttura complessa che conta oltre 150 persone, all’interno di una delle più grandi aziende ospedaliere pubbliche del Paese:
“esiste anche un on-boarding cattivo? Una specie di blob che ingoia i nuovi assunti, ne soffoca l’entusiasmo e li spinge più ad appiattirsi sulle posture più rinunciatarie e burocratiche e a perdere l’energia degli inizi? Come si resiste a questo blob?”
La direttrice ha visto entrare nella sua struttura amministrativa un alto numero di nuovi assunti nel giro dell’ultimo paio d’anni: in genere persone attorno ai trent’anni, con precedenti esperienze nel settore privato o in altre amministrazioni pubbliche, magari più piccole e meno interessanti. Erano vent’anni che non si assumeva nuovo personale in questa struttura e la relazione con i dipendenti ‘storici’ non è stata sempre facile e generativa. Incontro una piccola rappresentanza di questi ‘giovani’ in occasione di una giornata di lezione presso la loro azienda. Hanno voglia di partecipare, di dire la loro. Raccontano la loro frustrazione quando hanno provato a introdurre piccoli cambiamenti e hanno dovuto fronteggiare l’indifferenza o la resistenza dei più senior. Mi pregano di credere loro quando mi dicono si sono ben guardati dall’usare i loro titoli di studio (lauree, master, etc…) come clave contro i colleghi più senior, che non di rado hanno lo stesso inquadramento, ma con solo il diploma al proprio attivo. L’energia sembra ancora intatta, anche se la disillusione comincia a farsi largo. Capisco cosa intende la loro direttrice quando esprime un po’ di preoccupazione rispetto a come preservare questa risorsa. Come si fronteggia il blob?
Lo spiega una letteratura più che consolidata che mostra come fanno le organizzazioni a ingoiare e digerire le persone come un blob. Secondo questa prospettiva,
la ragione per cui gli individui (ma anche i gruppi e le organizzazioni) tendono ad assumere comportamenti e decisioni finalizzate ad omologarsi al contesto di appartenenza è perché posture divergenti – anche quando potenzialmente generative ed efficaci – sono bollate dalla maggioranza come eterodosse, devianti e, in ultima analisi, illegittime.
“Fare come fanno gli altri” (declinazione più sottile del “si è sempre fatto così”) è una sirena irresistibile, è un riparo confortevole dal rischio di essere messi in discussione, un luogo dove mimetizzarsi più facilmente, dove trovare consenso e approvazione. Questa sirena ha tra le sue armi le pratiche consolidate e le routine (“ci abbiamo già provato a fare come dici tu, ma non ha funzionato, fidati. Meglio fare come stiamo facendo noi…”), la cultura organizzativa e i suoi valori (“non è molto apprezzato chi cerca di fare di più: qui non piacciono quelli che cercano di mettersi in mostra…”), le regole formali e informali (“niente smart working per i neo assunti, almeno per tutto il primo anno: hanno la precedenza i più senior”). C’è un tempo, che è quello che intercorre tra l’ingresso di un nuovo dipendente e il suo completo assorbimento nel blob dell’organizzazione di arrivo, in cui il neo assunto sente ancora la distanza tra sé e questo insieme di regole, pratiche e valori.
Un tempo in cui conserva la lucidità di vedere cosa non funziona, insieme a come potrebbe essere innovato. In un contesto, come quello delle grandi istituzioni pubbliche, dove questi ingressi avvengono ad ondate, questo tempo può essere interpretato come una finestra di opportunità per rinnovare la cultura organizzativa, per cambiare le pratiche e favorire l’innovazione. Se i nuovi arrivati venissero interpretati non solo come nuova forza lavoro, mai sufficiente, per tamponare le falle dei mille processi sotto-staffati, ma come un’ondata di aria fresca, capace di rimettere in discussione come si è sempre fatto, di ripensare i processi, di superare i vincoli, allora anche l’on-boarding richiederebbe di essere completamente ripensato: non più lo strumento per integrare i neo assunti nel blob, ma occasione per consentire a questi ultimi di contagiare con la loro energia e senso di possibilità i contesti invecchiati in cui approdano. Per dirla con un’immagine,
più che di disegnare l’on-boarding, si tratta di organizzare l’abbordaggio: un atto di pirateria culturale in cui i nuovi assunti sono i migliori alleati del management per innovare i processi.
Quali sono le leve per organizzare l’abbordaggio?
Il primo rischio da evitare è quello dell’effetto diluzione nella struttura. Se va bene, i nuovi arrivati auto-organizzeranno i loro momenti di ritrovo, aggregandosi attorno alla fatica di integrarsi in apparati burocratici, non di rado ostili. Se, invece, si vuole conservare lo spirito del manipolo di giovani pirati “buoni” arrivati a portare aria nuova nelle strutture, occorre che i momenti di ritrovo, confronto, ascolto non siano lasciati al caso, ma diventino una precisa (nuova) routine organizzativa, guidata con intenzione e sapienza.
Non importa quanto ci sia da fare nelle diverse strutture. Un tempo fisso, regolare e monitorato dei nuovi arrivati, a cadenza settimanale, almeno i primi tempi, deve essere dedicato a lavorare su precisi e chiari obiettivi (individuali e/o di gruppo) di innovazione: prima orientati a produrre chiare diagnosi sui processi o pratiche potenzialmente migliorabili, poi a costruire piani di azione del cambiamento, di cui poter essere protagonisti. Se l’aspettativa verso i nei assunti è quella di portare aria nuova, meglio trasformare questa aspettativa in una chiara ed esplicita richiesta, articolata in obiettivi monitorati nel tempo.
Si sa che i più giovani e neo-arrivati sono più desiderosi di feedback continui: quanto più l’investimento è alto, come in genere è all’inizio di un nuovo lavoro, tanto più sarà alto l’interesse di sapere se sta ben fruttando o no. Se tutte le pratiche di on-boarding prevedono frequenti momenti strutturati di feedback coi nuovi assunti, l’abbordaggio richiede che questi momenti consentano ai nuovi arrivati di dare feedback sui colleghi e sugli stessi capi.
Chi è più giovane e arriva per ultimo ha bisogno di un tempo per imparare. Sarebbe certo più efficiente se gli venissero trasferiti tutti saperi dell’organizzazione, ma – anche quando fosse possibile – consentire loro di fare percorsi più lunghi per imparare, provando strade nuove, anche quelle che non funzionano, anche quando poi li riportano sulle tracce dei colleghi più senior, che tutto sommato bastava imitare dall’inizio, significa difendere il diritto all’errore, connaturato all’innovazione.