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Magistrate col velo e concorsi pubblici

Qualche settimana fa La Stampa ha intervistato una trentenne laureata in giurisprudenza: sta facendo la scuola di specializzazione per entrare in magistratura e il tirocinio da viceprocuratrice al tribunale di Verona. Dov’è la notizia? Le prime otto donne togate risalgono al 1965, dopo che il 9 febbraio del 1963 il Parlamento approvò la legge che stabiliva la parità di genere negli uffici pubblici. C’è voluto mezzo secolo e ora le donne sono un po’ più della metà in magistratura. 

La notizia è che l’aspirante magistrata si chiama Hajar Boudraa, è nata in Marocco, da quando ne ha 5 vive in Italia con la sua famiglia, dai 13 indossa l’hijab, a 28 è diventata cittadina italiana, prerequisito per accedere al concorso in magistratura.

E se fa notizia il solo fatto di aspirare alla carriera in magistratura è perché non solo i tribunali, ma la larghissima maggioranza degli uffici pubblici incontra i nuovi italiani solo al di là dello sportello.

Le ragioni di questa sotto-rappresentazione sono molte.

La prima riguarda l’età media delle amministrazioni pubbliche e il lungo blocco del turnover che ha tenuto fuori i giovani. E gli stranieri sono soprattutto tra i più giovani: l’età media è più bassa di oltre 10 anni rispetto a quella degli italiani (35,7 anni contro 46 anni nel 2021).

La seconda ha a che fare con un requisito necessario per lavorare nella pubblica amministrazione, che sembrerebbe superato nello schema di regolamento già approvato in Consiglio dei Ministri lo scorso dicembre che riforma DPR 487/94, ma ancora in corso di approvazione: per candidarsi ad un concorso non basta essere legalmente residente, come per tutti gli altri lavori, ma occorre essere cittadino italiano. E nel nostro paese le regole per l’accesso alla cittadinanza sono controverse e oggetto di accesi dibattiti: è più facile acquisire i diritti di cittadinanza per il nipote di un emigrato che non ha mai vissuto in Italia né parla la nostra lingua (e verosimilmente non è interessato a lavorare nei servizi pubblici), rispetto a chi in Italia è nato, cresciuto e magari l’italiano è anche l’unica lingua che parla e scrive. Alla normativa italiana si aggiungono le complicazioni di quella di origine, come i vincoli imposti dal governo cinese per i suoi emigrati. L’esito netto è che a fronte di oltre 5 milioni di stranieri residenti regolarmente in Italia, i nuovi italiani sono poco più di un milione.

Pertanto, se non si estende l’accesso ai concorsi agli stranieri con regolare permesso di soggiorno o non si provvede a cambiare le regole di accesso alla cittadinanza, tanti giovani rischiano di rimanere tagliati fuori dai concorsi e la PA rischia di conservare un volto che assomiglia sempre meno a quello del paese.

Bastano questi due argomenti per spiegare perché la diversità etnica e culturale che caratterizza le scuole, le sale di aspetto nelle ASL, le code negli uffici pubblici, raramente si trova rappresentata nel profilo degli operatori degli stessi servizi? Forse no.

In paesi più maturi sul piano del pluralismo della cittadinanza, come il Regno Unito, la diversità del profilo del pubblico impiego è un obiettivo di policy.

Nel sito del corrispettivo britannico del dipartimento della funzione pubblica si legge: “We want the Civil Service to reflect the diversity of the communities we serve. The Civil Service is at its best when it reflects the diversity of the country as a whole and is able to understand what the public needs”. Questa dichiarazione si traduce in un piano di azione che si basa sul presupposto che un pubblico impiego flessibile, innovativo e capace di anticipare, comprendere e rispondere ai nuovi bisogni delle comunità che serve ha bisogno di reclutare i migliori talenti da qualunque parte provengano, qualunque sia l’estrazione. Pertanto, se alcune comunità sono meno inclini a considerare il lavoro pubblico come possibile sbocco professionale, le politiche di attrazione e reclutamento sono intenzionalmente volte a cercare di attrarre candidati quanto più possibili diversi (maggiori dettagli qui). A questo servono le azioni positive messe in pista in molti paesi.

Quando ci si chiede perché i giovani non si candidano ai concorsi pubblici, alla lunga lista di ragioni occorre anche aggiungere: perché non pensano sia qualcosa che li riguardi o perché semplicemente non ne hanno (ancora per poco?) diritto.

Oggi non fa notizia leggere di una giovane donna che vuole diventare magistrato. Domani non farà notizia sapere che a scegliere questa carriera è una donna di origine marocchina di religione musulmana. E preparare la strada verso questo futuro è uno dei compiti di chi oggi gestisce le politiche e l’organizzazione del lavoro nelle amministrazioni pubbliche.  

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