#ValorePubblico

Leadership pubblica, tra politica e amministrazione

Come antipasto della lezione aperta #EMMAP dedicata alla presentazione del libro “Public Leadership, cinque modi di fare il dirigente pubblico” (link per partecipare, anche online, qui), si pubblica un piccolo estratto volto a rispondere alle seguenti domande: ha senso parlare di leadership con riferimento alla dirigenza pubblica? Qual è il confine di questo ruolo, con riguardo alla politica?

 

Quando si parla di leadership si tende a pensare a contesti business e a grandi aziende private.

Eppure le prime riflessioni che oggi possiamo ricondurre sotto il cappello della leadership si sviluppano proprio attorno all’osservazione e descrizione di figure dedite all’interesse pubblico,

attraverso un impegno diretto nella politica, nella guerra e, anche, nell’amministrazione.  

 

Paradigma di questo filone di contributi è Il Principe di Niccolò Machiavelli, il diplomatico e politologo della Firenze medicea che con questa opera interrompe la tradizione degli scritti che del sovrano ideale descrivevano le virtù morali attese. Il fiorentino, con grande pragmatismo prende atto che la forza e la violenza sono uno strumento di dominio e di esercizio del potere, che la dissimulazione e l’inganno possono generare un vantaggio, che l’astuzia di favorire il proprio interesse su quello altrui è un pezzo del lavoro del sovrano. Sono queste indicazioni che segnano la fama di Machiavelli come uomo cinico e disposto a tutto per raggiungere il potere: con lo sguardo di oggi potremmo dire che Machiavelli è invece il primo grande politologo moderno, che si attiene all’osservazione dei fatti per come sono, senza giudicarli, capace di separare le virtù morali dalle descrizioni dei comportamenti che permettono di esercitare con efficacia il potere di influenza. Inoltre, il fiorentino, con un approccio straordinariamente contemporaneo nel metodo, raccomanda esplicitamente al principe di studiare: di guardare alle storie dei grandi del passato perché dalle loro gesta si può prendere spunto.

 

 

Nello stesso solco si colloca il contributo di un Machiavelli contemporaneo, Henry Kissinger, il Segretario di Stato ai tempi dell’amministrazione Nixon, noto per aver cambiato il corso della storia delle relazioni tra USA e Cina negli anni ’70, che alla veneranda età di 99 anni ha pubblicato recentemente un libro in cui descrive e interpreta il contributo di sei grandi capi di stato: Konrad Adenauer, Charles de Gaulle, Richard Nixon, Anwar Sadat, Lee Kuan Yew and Margaret Thatcher. Il libro si intitola, appunto, Leadership.

All’ombra di questi oltre cinquecento anni di riflessioni sulla leadership dei politici, la capacità di guida della dirigenza pubblica, che nel dibattito si è affermata come “administrative leadership”, ha faticato a farsi largo. In primo luogo, perché

la separazione tra politica e amministrazione è un fatto piuttosto recente nella storia delle istituzioni pubbliche, come concetto e come pratica.

Sebbene la riflessione sugli equilibri tra poteri pubblici non sia certo nuova nella storia della filosofia politica (si pensi alle riflessioni di Montesquieu ne Lo spirito delle leggi del 1748), in genere, si riconduce il dibattito sul rapporto tra politici e civil servant alle formulazioni di Max Weber sulla burocrazia moderna. Il filosofo tedesco insiste sul confine netto tra i due ruoli: la politica è, appunto, vocazione, intesa come passione, visione e responsabilità, mentre l’azione amministrativa richiede una condotta sine ira et studio, ovvero scevra da furore e passione. Una postura, potremmo dire, inanimata, nel senso etimologico della parola, ovvero senz’anima, senza personalità, perché l’intenzione è nella legge. L’esecuzione, infatti, è ispirata solo a disciplina impersonale e razionale. A lungo questo modello ideale ha ispirato le aspettative di comportamento del funzionario pubblico, che non decide, ma esegue con rigore e fedeltà alle norme. La grande diffidenza (o paura?) verso l’esercizio di una qualche forma di discrezionalità trova le sue origini in questo modello.

Intanto, dall’altra parte dell’Atlantico, alla fine del diciannovesimo secolo, Woodrow Wilson – poi presidente degli Stati Uniti a cavallo della prima guerra mondiale e ideatore, al suo termine, della Società delle Nazioni – arrivava a conclusioni apparentemente simili, ma in realtà frutto di problemi diversi. Se Weber si chiede quale sia l’argine al potere della burocrazia – la legge, si risponde – Wilson, invece, pone il tema del limite del potere della politica sull’amministrazione. L’esperienza cui guarda Wilson è quella degli Stati Uniti della Guerra di Secessione e degli anni successivi, dove dominava la pratica dello spoils system, il sistema delle spoglie (metafora attribuita a William Marcy, senatore dello Stato di New York, che in un discorso pubblico nel 1832 avrebbe detto che “To the victor belong the spoils of the enemy”). Bisogna aspettare il Pendleton Civil Service Act del 1883 per l’introduzione di forme di assunzione permanente nell’amministrazione federale non collegata all’affiliazione politica. Di quella pratica Wilson ne osserva le storture e i limiti e propone, pertanto, alcuni correttivi. Nel suo The Study of Administration, un seminale articolo pubblicato nel 1987 in cui, tra le altre cose, invoca una maggiore americanizzazione degli studi dell’amministrazione dominati allora dai professori europei (oltre cento anni dopo abbiamo il problema opposto!), immagina che ad amministrare la cosa pubblica sia sì la politica, ma supportata da un “technically schooled civil service”. In altre parole, per Wilson – a differenza di Weber– il problema principale dello spoils system è pragmaticamente la scarsa competenza di chi amministra, più che il principio di legittimazione del potere. Infatti Wilson propone un sistema basato sul merito, inteso come modello di reclutamento e formazione di una classe dirigente che sia protagonista, capace di esercitare con responsabilità, etica e competenza tecnica un fisiologico spazio di discrezionalità che, in qualche modo, condivide con la politica. Infatti, sempre nello stesso articolo afferma che

“L’amministratore (il dirigente pubblico, potremmo tradurre per attualizzare meglio) dovrebbe avere e nei fatti ha una volontà propria nella scelta dei mezzi per compiere il suo lavoro. Non è e non deve essere un semplice strumento passivo”.

Come si può notare, per Wilson descrizione e prescrizione coincidono: le cose sono come dovrebbero essere, ovvero questo potere il dirigente pubblico ce l’ha nei fatti ed è giusto che ce l’abbia. Al contrario, per Weber il modello di burocrazia razionale, terza, impersonale, asservita all’esecuzione tecnica della legge, senza spazio per esercizio di volontà (sine ire et studio) è un modello ideale, senza grandi riscontri nella realtà.

Pertanto, anche una volta affermatasi nella teoria e nella pratica la differenza tra politica e amministrazione, la seconda ragione per cui la riflessione sulla leadership amministrativa ha tardato ad affermarsi è anche perché – se si assume una prospettiva burocratica nel senso weberiano del termine –

non c’è spazio per la leadership, se non c’è spazio di discrezionalità.

Questa visione ha largamente e profondamente influenzato la concezione continentale dell’amministrazione pubblica, soprattutto quella filtrata dalla cultura giuridica.

E se si assume una prospettiva “wilsoniana”, ovvero di amministrazione competente e discernente? Lo spazio per la leadership intesa come capacità di esercitare il proprio potere di influenza verso i membri della propria organizzazione (e non solo) trova cittadinanza e richiede anche di essere esplorato e conosciuto.

 

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