#ValorePubblico

Etica Pubblica? Citofonare ai capi

Tra i commenti del DL 80/2021, il c.d. Decreto Reclutamento, vi è chi teme che la semplificazione e riduzione dei vari piani e programmi – incluso quello relativo all’anticorruzione – riduca allo stesso tempo l’attenzione e il controllo sul tema. Al di là del merito della questione sollevata, ciò che mi colpisce di questo dibattito è quanto sia distante da quello scientifico sullo stesso tema. Più che studiare i piani anti-corruzione, un pezzo della comunità accademica si sta concentrando soprattutto sui comportamenti non etici, ovvero sulle micro-decisioni quotidiane dei singoli e su cosa li favorisce o li determina, quando esitano in corruzione o violazione dell’etica pubblica. All’interno di questo ambito vasto e variegato di studi e prospettive, spicca anche il filone dedicato all’impatto della leadership.

Ethical leadership, per conciliare risultati e regole

Alla base dello Stato di Diritto vi è l’aspettativa che chi esercita funzioni pubbliche – ed i poteri collegati – sappia combinare la capacità di rispettare il perimetro della legalità in chiave sostanziale e non formalistica; rispettare gli interessi pubblici in gioco non soltanto puntando a ridurre il rischio di contenzioso; perseguire i valori di neutralità e trasparenza, ma senza sottrarsi alle decisioni; e, in ultima analisi,  di essere da esempio per gli altri membri dell’istituzione con il proprio comportamento. In altre parole, da chi esercita funzioni pubbliche ci si aspetta la capacità di combinare il rispetto delle regole con la capacità di raggiungere i risultati attesi. Solo una visione superficiale e forse anche un po’ in mala fede può pensare che regole e risultati siano tra loro in uno stato di trade-off. Non serve chiudere un occhio sulle procedure per fare le cose velocemente e bene. Né inefficienza ed inefficacia possono essere imputati alle regole. Potremmo dire, invece, che tenere questi due aspetti insieme è il cuore del Public Management. Gli studi più recenti sulla leadership mostrano non solo che questa combinazione è possibile, ma anche particolarmente auspicabile nei contesti pubblici: in un working paper scritto con Lorenza Micacchi sugli stili di leadership correlati positivamente alla performance abbiamo riscontrato che l’ ethical leadership è tra gli approcci più efficaci per stimolare la motivazione e migliorare le performance.

Alla base dello Stato di Diritto vi è l’aspettativa che chi esercita funzioni pubbliche sappia combinare la capacità di rispettare il perimetro della legalità in chiave sostanziale e non formalistica; rispettare gli interessi pubblici in gioco non soltanto puntando a ridurre il rischio di contenzioso; perseguire i valori di neutralità e trasparenza, ma senza sottrarsi alle decisioni

Il ruolo del capo

I numerosi studi che hanno indagato questo fenomeno convergono sulla definizione che identifica così tre comportamenti tipici della leadership etica: (1) agisce comportamenti coerenti con i valori professati; (2) tratta i collaboratori con equità e consapevolezza; (3) riconosce i dilemmi etici nelle scelte quotidiane ed esplicita i principi morali cui si ispira per risolverli. La Leadership Etica è ormai un costrutto consolidato in letteratura, al punto di essere stato codificato in uno strumento di misurazione “Ethical Leadership Questionnaire” (ELQ), che è stato più volte incrociato con variabili dipendenti legate alle performance. Tali studi hanno mostrato che la Leadership Etica impatta positivamente sui collaboratori: aumenta la soddisfazione lavorativa (job satisfaction); aumenta l’impegno e il senso di coinvolgimento nel lavoro (job engagement e commitment); migliora la motivazione a serve il pubblico (Public Service Motivation); migliora la collaborazione tra colleghi e riduce anche l’assenteismo. Un recente studio pubblicato sulla rivista dell’American Psichological Association dimostra che comportamenti di ‘misconduct’ dei dipendenti sono spesso il prodotto dello stile di leadership dei capi, più che delle attitudini pregresse dei collaboratori, al punto che stili di leadership poco solidi sul piano etico favoriscono comportamenti scorretti anche nei collaboratori più integerrimi.

Dai piani ai comportamenti?

Lo so che in fondo in fondo è una brutta notizia. Non mi sfugge quanto sia più rassicurante pensare di oggettivare la corruzione ad un fatto altro da sé, ben domato dalla confortante razionalità di un piano. Ma forse è arrivato il momento di leggere con categorie nuove il fenomeno, guardare ai comportamenti, ai micro-processi e coltivare l’ambizione di poter agire su questo piano. Per farlo, occorre abbandonare l’approccio inquisitorio di chi cerca la colpa e assumere quello dell’antropologo: sovente all’origine di un clima che tollera il malcostume amministrativo vi è uno strisciante cinismo collettivo, che non può certo essere perseguito, ma ascoltato e contrastato con mezzi culturali e non penali. Per allenarci potremmo cominciare a rispondere alle seguenti domande: quanto i capi, nelle conversazioni con i propri collaboratori, fanno esplicito riferimento a valori e principi di fondo cui ispirano la propria azione? Quanto i capi sanno riconoscere (e allenano i propri collaboratori a riconoscere) i dilemmi etici nel quotidiano? Quanto i capi censurano conversazioni dove l’unico principio di riferimento è quello della difesa della propria posizione e del proprio interesse, sia esso individuale o corporativo?

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