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Dirigente pubblico: non è un mestiere per donne

In occasione di una ricerca sul tema donne e PA, condotta con le colleghe Silvia Rota ed Elisabetta Trinchero (di cui daremo notizia non appena pubblicata), siamo incappate in un dato che ci ha sorprese ed incuriosite. In attesa di poter condividere i contenuti ed i risultati dell’intero lavoro, ecco un piccolo spoiler.

Senza grandi giri di parole, il tema si può sintetizzare così: la PA è popolata in larga maggioranza da donne (58% della forza lavoro), ma è comandata da uomini (le donne dirigenti arrivano appena al 38%). Le ricercatrici sono il 50%, le professoresse il 34%. Le insegnanti l’81%, le dirigenti scolastiche il 70%. Le funzionarie (terza area) sono il 62%, le dirigenti di seconda fascia il 46%. E’ solo una questione di tempo e il processo di femminilizzazione dei ruoli darà luogo anche ad una più lenta, ma inarrestabile femminilizzazione dei vertici, coincidente col ricambio generazionale? Oppure il mix di fattori di cui si compone il soffitto di vetro, a partire dal pregiudizio verso le donne nei ruoli di comando – da cui non sono esenti nemmeno le donne stesse – continuerà ad ostacolare una più equa gestione del potere nelle organizzazioni pubbliche? Certo è difficile pensare che si possano aprire fasi di maggiore apertura culturale senza interventi mirati allo scopo.

 

C’è però un’altra storia che racconta delle carriere femminili nella PA. Le donne stanno diventando maggioranza in posizioni prestigiose equiparate alla dirigenza, tradizionalmente appannaggio degli uomini, come la carriera prefettizia (60%), la magistratura (54%), i segretari comunali (51%) e sono la metà dei medici (50%). Fa eccezione la carriera diplomatica, dove le donne sono meno di un quarto di tutto il corpo, oltre a tutte le forze armate e di sicurezza. Che cosa hanno comune questi mestieri, oltre al prestigio? Forse che sono diventate meno appetibili per gli uomini, che oltre a prestigio e responsabilità cercano retribuzioni più vantaggiose. Ma anche che sono carriere in cui si entra, in genere, nella prima fase della propria vita lavorativa, per concorso, al contrario della dirigenza amministrativa, cui si accede in genere – fatto salvo il Corso Concorso della SNA – con un secondo concorso, dopo la ‘gavetta’ da funzionario. Questi dati sembrano dirci che per le donne non è un problema vincere un concorso per entrare, soprattutto se lo fa ad inizio carriera. Gli ostacoli insorgono quando quel concorso tocca farlo più avanti con l’età, quando si accavallano altri impeghi e responsabilità extra-lavorative, come avviene per l’accesso alla dirigenza amministrativa. Certo, non sono rose e fiori nemmeno altrove: in sanità, ad esempio, le dottoresse che dirigono una struttura sono meno di un terzo del totale e se restringiamo ai ruoli apicali (direttori di struttura complessa) non arrivano al 16% (Saporito et al, 2019). Non sarei stupita se anche in magistratura e prefettura i ruoli chiave continuassero ad essere ricoperti da uomini. Insomma, concorso pubblico o no, il soffitto è di un vetro infrangibile anche nella PA.

Per le donne non è un problema vincere un concorso per entrare, soprattutto se lo fa ad inizio carriera. Gli ostacoli insorgono quando quel concorso tocca farlo più avanti con l’età, quando si accavallano altri impeghi e responsabilità extra-lavorative.

Eppure, a perderci non sono solo le donne, ma la società intera. Non è solo un problema di equità interna legata alla distribuzione di genere lungo le gerarchie aziendali. Ci perdono anche le politiche pubbliche e la qualità amministrativa. Nei processi di allocazione di budget, le donne sono più attente verso gli investimenti in istruzione ed inclusione e contemperano la maggiore propensione degli uomini a dare priorità legate ai temi dell’ambiente e dello sviluppo del territorio, hanno osservato le colleghe Rota e Barzan (2021). Inoltre, le donne sono più prudenti, hanno una minore avversione al rischio e si trovano molto più raramente coinvolte in fenomeni di corruttela (Decarolis,  et al,  2021). Non sono pochi gli studi che illustrano correlazioni interessanti, per quanto più controverse, come la maggiore motivazione intrinseca e pro-sociale delle donne, un’etica pubblica più spiccata e una vocazione maggiore a stili di leadership trasformativi.  

Se su questi aspetti sarà premiante fare ancora ricerca, è evidente che lo squilibrio dei generi tra base e vertice della piramide del pubblico impiego è un problema non solo delle donne, ma di tutti.

Nei processi di allocazione di budget, le donne sono più attente verso gli investimenti in istruzione ed inclusione e si trovano molto più raramente coinvolte in fenomeni di corruttela.

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