#ValorePubblico

A proposito di valore pubblico

Qualche mese fa due economisti dell’University College London, molto attivi anche nel dibattito non accademico, Mariana Mazzucato e Joshua Ryan-Collins, pubblicano su una rivista di politica economica un articolo con cui invitano la comunità di studiosi di pubblica amministrazione a rivedere la nozione di valore pubblico per come è stata elaborata in questo campo di studi.

 

 

La loro critica a me suona così: ragazzi, state giocando di rimessa, la vostra agenda di ricerca è tutta una garbatissima giustificazione di esistere, osate di più!

In sostanza, dicono: abbiamo capito che volevate affrancarvi dal dominio del paradigma del New Public Management e dimostrare che la pubblica amministrazione non è solo un costo, ma produce anche un qualche valore; abbiamo capito che vi serviva metterci accanto l’aggettivo “pubblico” per evitare di cadere in tentazione di misurare questo valore solo sul piano economico (e rimanere fregati, perché – quanto meno nel breve – le misure economiche non catturano alcun valore); abbiamo capito e apprezzato che la nozione di valore (pubblico o meno) non possa essere disgiunta da quella di utente/cittadino e del bisogno di cui è portatore (perché il valore è sempre relativo a qualcuno); ci è pure molto piaciuto come avete formulato questa cosa della co-produzione di valore nei processi di interazione e partecipazione dei cittadini e dell’utenza nei servizi pubblici. Ci è piaciuto, ma… signore e signori della PA: non basta!

 

Se volete davvero archiviare una volta per tutte le ideologie New Public Management (NPM) – aggiunge la coppia – dovete arrivare alla radice teorica da cui questo paradigma proviene e unirvi a noi nella sua critica: il nemico comune è la teoria dei fallimenti del mercato. Il limite di questa teoria – spiegano, facendo riferimento alla sterminata mole di loro pubblicazioni precedenti sul tema – è che consegnano al settore pubblico una funzione meramente riparatoria.

Una specie di pronto soccorso dell’economia di mercato, di cui occorre aggiustare le esternalità negative o i vuoti che lascia verso bisogni sociali cui non è conveniente rispondere.

Se guardiamo l’economia da questa prospettiva, è ovvio che il pubblico non può che essere confinato ad un ruolo marginale, ancillare, sempre in cerca di una giustificazione per esistere. Eppure, dicono loro facendo leva sui risultati dell’agenda di ricerca ormai ventennale di Mazzucato soprattutto sull’economia dell’innovazione, i nostri studi ci dicono che la creazione di valore è stata resa possibile solo grazie agli investimenti pubblici e alla presenza di istituzioni pubbliche in grado non solo di abilitare o non ostacolare, ma di anticipare, orientare e guidare la creazione di valore in generale, a partire dai processi di trasformazione del settore privato. Restituiamo, insieme, un ruolo meno servente e più centrale del pubblico nell’economia!

 

Ora, è evidente che i punti di contatto delle due agende di ricerca – quella di Mazzucato e collega e quella della comunità di studio del public management – non mancano di certo. Ma, forse, qualche precisazione andrebbe fatta.

 

La prima è che l’economia e il management (pubblico o no) hanno due oggetti di studio un po’ diversi: la prima guarda ai macro fenomeni in chiave sistemica e poco si interroga su quanto succede nella scatola nera delle organizzazioni; il secondo – invece – guarda dentro al funzionamento dei singoli istituti quali le imprese o, nel caso del public management, le amministrazioni pubbliche e affini. La differenza tra le due discipline è un po’ quella tra l’airone, che studia ampi spazi di campo dal cielo, e il rospo, che il campo lo studia da dentro, metro per metro: guardano entrambi la stessa cosa, ma da prospettive diverse e con finalità diverse. Non che questa differenza impedisca lo scambio o la collaborazione, ma occorre tenerla in conto per spiegare la differenza delle domande di ricerca: il ruolo dello Stato nell’economia per il management pubblico è un dato esogeno che varia al variare del contesto e l’oggetto di indagine diventa come, stante i vincoli dei diversi sistemi, si organizzano i processi di creazione di valore (pubblico) anche attraverso la collaborazione col privato.

 

A tal proposito, occorre fare una seconda precisazione:

dire che agli studi di public management serva mettere in agenda come il valore pubblico si generi nell’interazione tra pubblico e privato non suona così dirompente, alla luce dei quintali di contributi sul tema della partnership pubblico-privato,

una pratica di collaborazione che è stata studiata in lungo e in largo anche con chiavi di lettura ispirate alla nozione di valore pubblico, ma ignorata dagli autori (se mi limito ai contributi dei colleghi di SDA Bocconi, penso ai lavori di Veronica Vecchi con Francesca Casili e Niccolò Cusumano). Un recentissimo articolo apparso su Il Sole 24 Ore scritto con la collega Veronica Vecchi richiamava proprio il ruolo pivotale del pubblico nel guidare gli investimenti PNRR nei confronti del privato e degli altri stakeholders e offriva un modello di azione per i public managers. Insomma, qualcosina sul tema è già stata detta…

 

Infine, quando si citano i lavori della Ostrom e il suo appello ad una visione meno manichea delle istituzioni [She shows that a radical state-private division is, to use her word, barren. In developed economies, there are many types of organisations. (…) Besides, the crude binary state-private division fails to capture the many ways in which all institutions create and destroy value.] il pensiero vola ai fondamenti dell’economia aziendale italiana, sovente sperduti sotto il dominio degli studi di management di stampo anglosassone: «L’azienda è un istituto economico destinato a perdurare che, per il soddisfacimento dei bisogni umani, ordina e svolge in continua coordinazione, la produzione, o il procacciamento e il consumo della ricchezza». (Gino Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, 1956). Riscoprire la finalità sociale di ogni istituto, sia esso economico o non economico, per come fu formulata poco meno di un centinaio di anni fa dai fondatori dell’economia aziendale, può aiutare non solo alla riflessione sulla creazione di valore pubblico nella versione di Mazzuccato e Ryan-Collins, ma forse anche a scoprire che l’attuale dibattito sul tema della sostenibilità e sul sense of purpose delle imprese è – ancora una volta – il tentativo anglosassone di aprire un varco in muro che nella dottrina italiana non era mai stato eretto.

 

Al netto di qualche precisazione, l’incontro con altre discipline su terreni di ricerca comune è un’occasione ricchissima per tornare a riflettere sui fondamentali. Quindi, sia benvenuta un’agenda di studio plurale sul valore pubblico!

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