#ValorePubblico

Più donne dirigenti nella PA: come?

Questo post parte con una comunicazione di servizio. Dopo oltre due anni di vita di #ValorePubblico, che lo scorso anno è anche diventato un e-book (scaricabile gratuitamente qui), in coerenza con la linea di SdaInsight, il progetto editoriale del sito di SDA Bocconi, le uscite saranno bimestrali. Sarà pubblicato sempre di lunedì, anche se uno ogni due. #ValorePubblico continuerà ad attingere all’attualità per portare riflessioni sul funzionamento delle istituzioni pubbliche. Ma con un po’ più di tempo per tenere il dibattito sul tema proposto, tra un post e l’altro.

 

La scorsa settimana in un articolo apparso sul Sole 24 Ore citavo una ricerca condotta con le colleghe Silvia Rota ed Elisabetta Trinchero che mostra che nonostante la pubblica amministrazione sia popolata in prevalenza da donne, è gestita in prevalenza da uomini: le dirigenti di prima fascia sono appena il 38%, le DG il 27%.

Nello stesso articolo invitavo a non considerare un tabù le quote di genere, come strumento di azione positiva temporanea per ridurre il gender gap in questi ruoli. Ho ricevuto varie reazioni su questo punto. Chi ha citato il caso francese, dove le quote per i ruoli di vertice nella PA sono già state introdotte da tempo. Chi si è detta mortificata dalle quote. Chi ha contestato che i dati raccolti indichino la presenza di un fatto discriminatorio. Chi sospetta che non sarebbe compatibile con i vincoli costituzionali e le norme sulle procedure di accesso ai ruoli di alta direzione. Molte, a dire il vero, hanno anche detto che sarebbe ora!

Tra le persone con cui mi sono confrontata su questi dubbi, ci sono alcune esperte che si occupano di temi di genere nella PA, a titolo diverso. Arianna Enrichens, avvocata impegnata nella tutela dei diritti delle donne e consigliera di fiducia in diversi enti e università pubbliche, Veronica Valenti, Associata di Istituzioni di Diritto Pubblico e Docente di Diritto delle Pari Opportunità, Università di Parma, Alida Vitale, avvocata giuslavorista e per oltre dieci anni consigliera di parità della Regione Piemonte.

Quanto il soffitto di cristallo è percepito come un problema nella PA?

Il fenomeno è noto ed osservato, ci spiega Valenti: “Molti bilanci di genere, laddove adottati, registrano una diffusa femminizzazione della pubblica amministrazione ed anche una maggiore presenza femminile a livello apicale, ma tale presenza rimane ancora eccessivamente bassa”.

“La sottorappresentanza femminile nei ruoli apicali è certamente un tema sentito e dibattuto negli organismi di parità delle pubbliche amministrazioni” dice Enrichens. “Ma rispetto a quello delle molestie – che rappresentano la più grave forma di discriminazione e che vanno sanzionate con la massima tempestività e incisività – il soffitto di cristallo è percepito come una condizione non immediatamente superabile e, quindi, forse, trattato con minore urgenza” aggiunge e sottolinea anche quanto il fenomeno dell’autoesclusione renda non scontato riconoscere il gap di genere come discriminazione e, pertanto, meno evidente la necessità di porre in essere efficaci strumenti di azione e cambiamento.

Ma forse è anche il momento giusto per rilanciare il dibattito e trovare delle soluzioni. Secondo Valenti “le democrazie contemporanee hanno in sé tutti gli strumenti (giuridici ma non solo) per accelerare i tempi e accompagnare progressivamente un cambiamento da troppo tempo atteso” e possono combinare un mix di misure: “da quelle più blande, a quelle più graduali fino al sistema delle quote, in ragione delle specificità del contesto lavorativo. Per tale motivo, lo stesso PNRR prefigura concrete azioni positive (finanziarie e normative) per promuovere le politiche di pari opportunità in ogni ambito.”

Le politiche di conciliazione rischiano di essere una trappola: da un lato fanno perdere terreno alle donne che utilizzano congedi o part-time, dall’altro rinforzano lo stereotipo del lavoro domestico e di cura familiare come un problema tutto femminile.

Le politiche di conciliazione? Sì, se anche per gli uomini

“Una prima (facile) risposta potrebbe essere quella delle politiche di conciliazione tra vita e lavoro” dice Enrichens, che però ci mette in guardia dall’attribuire a queste misure tutta la responsabilità di risolvere il problema. “Spesso, infatti, sono rivolte solo alle donne e non sono sufficientemente incentivanti per gli uomini e, così, il problema dell’ineguale distribuzione del carico della cura familiare rimane inalterato.” In sostanza, le politiche di conciliazione rischiano di essere una trappola: da un lato fanno perdere terreno alle donne che utilizzano congedi o part-time, dall’altro rinforzano lo stereotipo del lavoro domestico e di cura familiare come un problema tutto femminile. Ma, anche qui, non mancano le soluzioni: “le misure di conciliazione devono essere ‘bidirezionali’ e cioè rivolte e potenziate anche per il genere maschile”, spiega Valenti; quanto al rischio di accumulare svantaggio professionale, Vitale spiega che “ormai la giurisprudenza è concorde nell’affermare che non si possono penalizzare le donne nei percorsi di carriera o nell’assegnazione della produttività perché in part-time o in maternità”. Un diritto forse non abbastanza rivendicato, per quanto tutelato, da tante donne.

 

Un fatto culturale: che si fa?

Sul piano culturale si possono fare molte cose, a partire dalla valorizzazione della professionalità femminile “anche a partire dall’uso di un linguaggio corretto dal punto di vista del genere che sostiene il riconoscimento dell’autorevolezza delle donne nei ruoli di potere” ci dice Enrichens, che ha scelto di firmarsi avvocata sin dagli esordi della professione. “Serve tanta formazione” aggiunge Vitale, che denuncia quanto sia ancora bassa la sensibilità su questi temi rispetto ad altri paesi. A tutti i livelli. Anche tra le donne. Simile la posizione di Valenti: “Sarebbe opportuno investire maggiormente nell’empowerment femminile e consolidare le capacità di leadership e di autodeterminazione delle donne, affinché, anche psicologicamente, le donne siano più attrezzate ad affrontare gli ostacoli lungo il proprio percorso di carriera”.

Servono le quote per i ruoli apicali?

“Intanto non chiamiamole quote” è l’invito di Vitale che preferisce parlare di azioni positive, definizione in cui risuona l’esperienza dell’affirmative action delle università americane negli anni sessanta per le minoranze afroamericane. “E’ uno strumento ormai consolidato anche nel nostro ordinamento ed è molto efficace: lo abbiamo visto con la legge Golfo Mosca del 2012, che nel giro di dieci anni ha portato la presenza delle donne nei CdA dal 4 al 40%, o più recentemente con la legge elettorale.” Difficile pensare che senza saremmo molto oltre quel 4%.

“Credo, innanzitutto, che ci debba essere maggiore trasparenza nelle procedure di conferimento di incarichi direttivi e nelle procedure di nomina” risponde Valenti, che ci ricorda anche che “dagli articoli della Costituzione Italiana alle disposizioni del Codice delle Pari Opportunità, il nostro ordinamento giuridico impegna le Istituzioni a rimuovere ogni ostacolo culturale, economico e sociale che impedisce l’effettiva uguaglianza senza distinzione di sesso (art. 3 Cost.) e impone un vero e proprio dovere giuridico di promuovere le pari opportunità, in ogni ambito della vita.”

Anche, laddove serve e a parità di competenza, difendendo degli spazi.

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