Sotto la lente

L’ingrediente (poco segreto) per riformare la pubblica amministrazione

Tira un’aria di grande cambiamento per la pubblica amministrazione (PA): il decreto semplificazione, l’introduzione dello smart working, la spinta alla digitalizzazione, il ricambio generazionale e l’inserimento di nuova forza lavoro ecc.

 

Sarà la volta buona? Sicuramente non il primo tentativo di questo tipo, ma la nostra burocrazia si è sempre dimostrata molto resistente, quasi irriformabile.

 

Potremmo discutere a lungo sui fattori che nel tempo hanno ostacolato il cambiamento, ma forse vale la pena concentrarsi su un aspetto di cui, in genere, si parla poco: il ruolo del dipendente pubblico. Coerentemente con il modello burocratico di stampo weberiano, l’esercito dei dipendenti pubblici è considerato un insieme di soggetti passivi che deve adattarsi alla macchina e alle previsioni normative. Nel sentire comune, i dipendenti pubblici non devono performare, basta che garantiscano un impegno minimo accettabile per giustificare il livello di stipendio; non devono essere motivati, perché godono già del privilegio di un posto fisso e sicuro; e le loro lacune non vengono mai fino in fondo evidenziate, rendendo altrimenti necessari gli investimenti per colmarle. Insomma, dalla figura nobile del civil servant, quasi un eroe antico mosso da valori profondi e grande senso del dovere, siamo passati a una rappresentazione dell’impiego pubblico come appesantito da una massa indistinta di burocrati, avvitato su se stesso, poco permeabile alle esigenze del mondo esterno e, nel peggiore dei casi, verso fannulloni e furbetti.

 

Non tutto questo, ovviamente, corrisponde a realtà; tuttavia questa immagine stereotipata della pubblica amministrazione genera una forte contrapposizione tra due mondi sempre più lontani tra di loro: da un lato i dipendenti pubblici, che si sentono poco valorizzati, mal pagati, mal gestiti ed etichettati, a prescindere, come «privilegiati in vacanza»; dall’altro i riformatori, che vedono una pubblica amministrazione non al passo con i tempi, con dipendenti non all’altezza delle sfide moderne, poco inclini a prendersi responsabilità, a mettersi in gioco e a investire energie personali.

 

Ma come sarà possibile attuare i grandi cambiamenti auspicati se i protagonisti principali non sono ritenuti all’altezza e non si sentono valorizzati? In realtà, i processi di turnaround che hanno avuto successo, sia nel pubblico sia nel privato, dimostrano proprio come l’engagement dei dipendenti rappresenti una condizione imprescindibile e determinante.

 

Per evitare l’ennesima riforma «sulla carta» è tempo di preoccuparsi di come far leva proprio sui dipendenti pubblici per promuovere e attuare il cambiamento. In fondo, basterebbero poche e semplici misure, capaci di dare un nuovo ruolo ai dipendenti pubblici e risvegliare in loro l’orgoglio di lavorare per la collettività, rinvigorendo il senso di appartenenza alla propria organizzazione. Si potrebbe, per esempio, coinvolgerli nella co-progettazione e nell’attuazione di processi di riforma, nel disegno di una nuova organizzazione agile che sia alla base di una PA davvero semplificata e capace di lavorare anche da remoto. Bisognerebbe valutarli non solo per dar loro un premio, ma per far emergere i loro punti di forza, per colmare i gap rilevanti di competenza e costruire nuove prospettive di sviluppo professionale. È inoltre necessario formarli a partire da una rilevazione seria dei fabbisogni, con strumenti innovativi e in maniera continuativa, premiarli per la loro produttività, per la proattività, per l’innovazione e la creatività che dimostreranno, ma anche offrirgli di più, ma soprattutto qualcosa di diverso: orari flessibili di lavoro, giornate di ferie o ore di permesso extra a fronte dei risultati prodotti, possibilità di accesso ad assicurazioni sanitarie, servizi aziendali (asili, medico in sede, convenzioni ecc.), riconoscimento del ruolo di formatore interno per le competenze raggiunte, occasioni di visibilità esterna ecc. Infine, offriamo loro una prospettiva di sviluppo di carriera creando opportunità di crescita non solo vincolate a concorsi, ma ai meriti effettivi.

 

Per fare tutto questo servirebbe un po’ di semplificazione e qualche ritocco ai contratti, ma soprattutto una rinnovata gestione delle risorse umane.

 

È tempo allora di abbandonare l’idea dell’HR manager quale esperto amministrativo concentrato sulla regolarità formale dei processi gestiti. Abbiamo bisogno di dare respiro strategico alla funzione HR, qualificando il ruolo e le competenze di coloro che la governano all’interno delle amministrazioni pubbliche. Abbiamo cioè bisogno di qualcuno che sappia leggere il contesto in senso ampio, partecipando alla definizione delle strategie, qualcuno in grado di pianificare di conseguenza l’evoluzione quali-quantitativa degli organici. Abbiamo bisogno di persone in grado di sviluppare l’intera organizzazione, superando le resistenze costruendo commitment diffuso e ricercando sostegni interni ed esterni all’amministrazione. Abbiamo bisogno di qualcuno in grado di progettare e attuare un’organizzazione snella, al tempo stesso solida ed efficace, capace di distinguersi. Abbiamo bisogno, infine, di una funzione attiva e credibile che costruisca fiducia e che sappia trovare il giusto equilibrio tra le abitudini del passato, comprese le sue zone di confort, e un futuro necessario, desiderabile ma incerto.

 

La ricetta per creare una nuova PA non è ancora completamente definita, ma di sicuro un ingrediente è fondamentale: ripartire dai suoi dipendenti e da coloro che sono chiamati a gestirli.

 

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