Sotto la lente

I modelli di business data-driven: terra di opportunità o di opportunismo?

A poco più di un anno dal manifesto della Business Roundtable, il documento con il quale oltre 180 CEO delle più importanti imprese americane hanno posto le basi per una nuova cultura d’impresa, più attenta ai temi etici, ambientali e sociali, è bene ricordare che la rivoluzione digitale non ha rivoluzionato i principi di fondo della buona governance aziendale. Né, in particolare, ha messo in discussione i fondamenti del marketing relazionale: ne ha potenziato, piuttosto, tutte le logiche e le implicazioni, positive e negative.

 

Nella prospettiva di SDA Bocconi School of Management, da sempre fare marketing significa affinare processi per identificare, creare, comunicare e trasferire elementi di valore ai propri clienti, per consolidare relazioni di mercato secondo modalità che siano profittevoli e sostenibili nel tempo. Il concetto di sostenibilità ha importanti implicazioni competitive, finanziarie ed etiche: la creazione di valore non deve essere facilmente imitabile dai concorrenti, ma deve tradursi in valore economico, per remunerare e continuare ad attrarre i fattori produttivi. Inoltre, non può declinarsi attraverso comportamenti opportunistici nei confronti dei clienti, dei dipendenti o, più in generale, del contesto ambientale e sociale in cui un’azienda opera. Nulla di tutto ciò, naturalmente, è reso obsoleto dai bit.

 

Parlando di rivoluzione digitale, dunque, vanno distinti due piani. Sul piano logico, l’affermarsi di un mondo iperconnesso ribadisce e, anzi, decuplica la forza di una filosofia orientata alle relazioni. Questo si realizza per due motivi: se un’azienda sarà in grado di costruire con il cliente un rapporto di valore equo e fiduciario, creerà i migliori presupposti cognitivi e affettivi per sperimentare insieme a lui tutte le nuove opportunità di business aperte proprio dal mondo digitale; al contrario, se il modello di business o la cultura aziendale fossero radicati in una logica transazionale e poco trasparente, presto o tardi la rete farà da cassa di risonanza ai comportamenti opportunistici, penalizzando la crescita nel tempo e rendendo più difficile lo sviluppo di opportunità digitali adiacenti.

 

Una vera rivoluzione, invece, si osserva sul piano dell’attuazione dei principi di marketing, ovvero nel modo in cui essi vengono declinati operativamente, impiegando strumenti radicalmente nuovi, che talvolta si affiancano e talvolta sostituiscono quelli già esistenti: per un cliente che vive ormai in uno spazio aumentato, in cui online e offline si fondono insieme, è aumentato coerentemente anche il marketing dell’impresa, in tutte le sue fasi di creazione del valore.

 

È proprio qui che entrano in campo i big data, gli algoritmi, il deep learning e l’intelligenza artificiale. «Science & Art», come sentiamo dire sempre più spesso: è l’orchestrazione di nuove competenze analitiche unite alla tradizionale creatività e all’intuito manageriale, il tutto radicato negli stessi principi di fondo.

 

Eppure, non a caso, proprio con riferimento a questi nuovi strumenti nel titolo si chiamano in causa «opportunità» e «opportunismo». Le opportunità connesse ai big data e agli algoritmi sono ormai note e innumerevoli. In ambito marketing, per esempio, includono: l’affinamento delle previsioni di vendita, dei gusti, delle occasioni d’uso e delle preferenze del mercato, incrociando un numero sempre maggiore di fonti informative, comprese le immagini postate sui social media; il re-marketing (o re-targeting) per focalizzare gli investimenti di comunicazione sulla base dei precedenti comportamenti online (il cosiddetto programmatic advertising); i sistemi di raccomandazione e i suggerimenti personalizzati; la clickstream analysis, cioè quel processo di tracking e analisi dei visitatori di un sito internet utile per ottimizzare i tassi di conversione dei prospect lungo il sale funnel; la microsegmentazione delle offerte in funzione dei precedenti comportamenti d’acquisto; il dynamic pricing, anche incrociando i prezzi dei concorrenti e le disponibilità in magazzino; i chatbot, per l’assistenza automatizzata al cliente; il customer churn prediction, per azioni di CRM sempre più tempestive e personalizzate, e così via.

 

Per quanto detto prima, però, nessuna di queste attività dovrebbe mettere minimamente in discussione il meta-obiettivo della fiducia e della self-brand connection, ovvero lo sforzo prioritario dell’azienda di sviluppare valore, equità e senso di identificazione tra sé e i propri clienti. Il valore-opportunità di un simile traguardo, infatti, risulterebbe ben superiore a qualunque risultato di breve termine che andasse a suo discapito. Concettualmente, il valore-opportunità della brand equity può essere visto come il valore attuale di tutte le opportunità future che un’impresa potrebbe sviluppare in un mondo iperconnesso, facendo leva su una base clienti fedele sia da un punto di vista cognitivo sia affettivo.

 

Sebbene questo valore sia impossibile da quantificare, intuitivamente possiamo ritenerlo superiore ai vantaggi di breve termine conseguibili con un utilizzo opportunistico e poco trasparente dei big data. Oggi, purtroppo, quest’ultima tentazione è molto forte. Si pensi, per esempio, alla frustrazione del cliente quando vede cambiare di continuo un prezzo di vendita, anche più volte al giorno; o, ancora peggio, quando lo vede ridotto poco dopo il suo acquisto. Oppure alla frustrazione dell’acquirente quando scopre che altri hanno ottenuto condizioni migliori per la medesima offerta; ma anche al senso di violazione della privacy che sperimenta quando percepisce che i propri dati sono stati utilizzati senza una trasparente attività di permission marketing. Si pensi a quando il consenso gli è stato estorto in modo coercitivo; oppure, ancora peggio, quando è stato ottenuto in modo subdolo camuffandolo con qualche offerta speciale. Opportunità o opportunismo? Qual è il valore dell’opportunità e quale, in questi casi, il costo dell’opportunismo? Personalmente faccio il tifo per la trasparenza non solo per le motivazioni finanziarie appena descritte, ovvero in virtù del net present value delle opportunità digitali future: ancor prima, è una questione deontologica, valoriale e persino di institutional legitimacy per l’intero sistema delle imprese. Non possiamo dimenticare che le buone, vecchie regole di governance ci chiedono di considerare, oltre ai costi aziendali, anche i costi sociali delle nostre azioni.

 

Per concludere, però, è altrettanto importante sottolineare che il valore della fiducia, in sé, rimane del tutto potenziale, non reale. Saper trasformare il «capitale relazionale» in effettivo valore economico è tutt’altra sfida, è un traguardo successivo che non possiamo assolutamente dare per scontato: partendo da una solida base fiduciaria, questa sfida richiede capacità di innovare e di sperimentare per integrare le proprie competenze e i propri revenue model con nuovi modelli e nuove reti di alleanze.

 

In sintesi, le aziende su cui bisogna scommettere sono quelle che sapranno coniugare al meglio le logiche relazionali del marketing e della fiducia con le opportunità crescenti degli algoritmi e dei dati nei nuovi spazi aumentati. Un’impresa con relazioni forti ma priva di grandi competenze analitiche rappresenta un ampio valore inesplorato, così come realtà dove le competenze analitiche sono scollegate dalla costruzione di un brand leale si tradurranno presto nella perdita di enormi opportunità.

 

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