Sotto la lente

L’Alaska è fredda, si sa

Il 15 agosto rappresenta un giorno simbolico e importante, in cui i presidenti Trump e Putin si sono incontrati ad Anchorage per facilitare la de-escalation del conflitto in corso in Ucraina. È andata davvero così? I presupposti sulla base dei quali si è organizzato questo incontro non lasciavano molti dubbi in merito: l’incontro non poteva che finire con un nulla di fatto.

 

L’apparato simbolico è stato eclatante: la scelta di una location simbolica (che, tra l’altro, fino al 1867 è stata un territorio russo, poi diventato il 49° Stato dell’Unione), tappeto rosso all’arrivo, frasi significative come “abbiamo fatto progressi,” “abbiamo avuto un colloquio produttivo.”

 

Nell’articolo pubblicato a maggio su SDA Bocconi Insight, in cui si analizzava il profilo di cinque importanti “personaggi” coinvolti in questa dinamica globale, si metteva in evidenza come fosse importante coinvolgere l’attore principale al tavolo negoziale: anche questa volta, si è persa questa opportunità.

 

E allora perché organizzare questo summit? Proviamo ad analizzarlo tramite la lente di analisi della “comunicazione negoziale.”

 

Il presidente russo appare coerente con il suo profilo di “calcolatore” e capace di molta pazienza. La sua dichiarazione, “qualsiasi accordo non dovrà essere sabotato da Kyiv o dai suoi alleati,” non è tipica di un approccio orientato all’apertura e alla collaborazione, bensì è coerente con lo stile di egemone secondo il quale la diplomazia è utilizzata per esercitare pressione e per (ri)affermare la sua legittimazione a livello globale. È come se dicesse che le altre parti dovranno adeguarsi alle condizioni poste. Il suo stile comunicativo risulta quindi autoritario.

 

Anche il presidente statunitense risulta coerente con il suo stile di “gambler.” L’ambiguità narrativa emerge anche questa volta: le sue frasi, “abbiamo fatto grandi progressi” e “no deal until there is a deal,” sintetizzano chiaramente l’approccio a voler mantenere tutte le opzioni aperte, pronto a rivendicare eventuali passi in avanti come parte del suo “gioco.” È un registro comunicativo opportunistico, orientato più alla costruzione del consenso interno che alla costruzione di una piattaforma per dialogo realmente multilaterale in cui ogni parte può portare e discutere dei propri interessi. Non a caso, durante la conferenza stampa non è stato concesso spazio per le domande da parte dei giornalisti.

 

Questa dinamica ripropone quanto già discusso in precedenti occasioni: utilizzare un’importante opportunità – che sarebbe servita per far progredire la negoziazione relativa al conflitto in Ucraina – per un’azione teatrale a due voci, dove ognuna sembra avere un proprio obiettivo (il primo, legittimarsi sulla scena politico-commerciale-diplomatica internazionale; il secondo, creare consenso interno e posizionarsi come paladino della pace).

 

Eppure la storia ci insegna molto in tal senso. Quando si agisce il ruolo di mediatore – dopo aver preparato bene il terreno – si coinvolgono le parti direttamente interessate. Questo è quanto accadde a Camp David (1978) dove il presidente Jimmy Carter creò le condizioni affinché il presidente egiziano Sadat e il primo ministro israeliano Begin si incontrassero – per tredici giorni – arrivando a un accordo condiviso. Naturalmente Carter aveva degli interessi indiretti affinché si raggiungesse l’accordo, ma in quella circostanza agì da facilitatore che portò alla firma di due documenti che portarono al trattato di pace israelo-egiziano del 1979.

 

Il summit di Anchorage, pur ipotizzando che avesse l’intenzione di fondo di voler agire da piattaforma di mediazione, dimostra uno svolgimento dei fatti che lo configura come una mediazione apparente e, al tempo stesso, una negoziazione distorta.

 

Gli eventi successivi hanno chiarito ulteriormente i limiti di questo incontro. Infatti, subito dopo l’incontro di Anchorage, Trump ha avuto una conversazione telefonica definita “long and substantive” con il presidente Zelensky, preparatoria ad un incontro bilaterale fissato da lì a poco a Washington, DC. Il presidente ucraino ha, ancora una volta, detto con chiarezza che non è possibile trovare un accordo senza il coinvolgimento dell’Ucraina (“no agreement without Ukraine’s involvement”). In altre parole, il ruolo dell’Ucraina è centrale in questo dibattito e aggirarlo significherebbe compromettere la credibilità del negoziato stesso.

 

Anche l’Europa ha reagito al summit in modo cauto. Alcuni hanno sottolineato la necessità di garanzie di sicurezza robuste, richiamando meccanismi simili a quelli previsti all’art. 5 della NATO. È ritornata in primo piano la proposta già lanciata a marzo durante il “London Summit on Ukraine,” ovvero della coalizione di peacekeeping – Coalition of the Willing – a voler segnalare la crescente volontà europea di assumere un ruolo autonomo di mediazione, basato su un approccio diplomatico multilaterale. D’altra parte, nel frattempo Pechino adotta un approccio silenzioso (coerente con il suo profilo) ma strategico e ambizioni globali nel lungo periodo.

 

Ma l’idea di incontro trilaterale appare oggi più un fragile auspicio che una prospettiva concreta. Il presidente Putin rimane poco incline ad accettare un incontro diretto con il presidente Zelensky senza concessioni preliminari. Quindi, prudenza e diffidenza continuano a caratterizzare il dibattito internazionale.

 

Se il summit è stato un evento simbolico e di “apparenza” non ha allora alcuna implicazione? Anche la forma, talvolta, può avere un peso significativo. Nel caso specifico, la relazione di fiducia multilaterale non ne esce rafforzata, anzi. Il presidente russo ha ottenuto la visibilità e legittimazione sulla scena diplomatica internazionale che, probabilmente, stava cercando.

 

Rimane aperta la questione già evidenziata nell’articolo di maggio: la ricerca di una soluzione di pace difficilmente può avvenire per interposta persona, soprattutto quando quest’ultima non ne ha il mandato. Per andare avanti, occorre che chi si propone come mediatore agisca davvero come tale e cioè in modo neutrale, legittimo, imparziale. In caso contrario, come la storia insegna, ogni mediazione rischia di degenerare in negoziazione interessata, incapace di generare una soluzione sostenibile nel lungo termine (Caporarello, Negoziare con successo, 2025).

 

In sintesi, il contesto negoziale resta incerto, segnato da una continua tensione tra la ricerca di valide soluzioni multilaterali e l’emergere di dinamiche bilaterali asimmetriche. Gli Stati Uniti sembrano voler intervenire ma in modo indiretto; infatti, hanno prospettato un ruolo di supporto aereo e di garanzia logistica ma non un impegno militare diretto tramite l’invio di truppe. La Russia ha aumentato la visibilità internazionale e potrebbe ulteriormente rafforzare la propria posizione se non vi saranno reazioni concrete sul piano internazionale. La Cina, dal canto suo, guarderebbe con favore ad una distensione “limitata” dei rapporti in particolare tra Washington e Mosca, poiché le consentirebbe di mantenere i rapporti aperti con l’Occidente e consolidare maggiormente la sua (già forte) posizione commerciale in particolare verso Mosca e Kyiv. Questo potrebbe permetterle di proporsi come facilitatore del conflitto chiamando ad un tavolo comune Ucraina, Russia, UE e Stati Uniti.

 

In questo scenario, l’Europa non è ancora considerata pronta ad assumere da sola un ruolo centrale. Tuttavia, se riuscisse a presentarsi in modo strutturato e compatto, potrebbe acquisire rapidamente questo ruolo, ad esempio attraverso l’iniziativa Coalition of the Willing.

 

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