#ValorePubblico

L’utopia delle regole. Tributo all’ultimo antagonista della burocrazia.

Siamo ormai tutti così profondamente e inconsapevolmente vittime della trappola burocratica, che anche la sua critica si è sbiadita negli ultimi decenni. Oppure si è piegata a logiche partigiane, poco utili a ripensare il funzionamento delle istituzioni pubbliche. Questo, in sintesi, il punto di partenza del pensiero sulla burocrazia di David Graeber, intellettuale anticonformista e attivista politico, scomparso prematuramente questo mese. Anche se la sua prospettiva non è priva di aspetti controversi e discutibili – a partire dalla ricetta che propone – Graeber ha il merito di aver contribuito a riformulare e rilanciare la critica alla burocrazia.

Se burocrazia è sinonimo di servizi pubblici, chi è contrario allo smantellamento dei servizi pubblici è un difensore della burocrazia. Graeber si ribella a questa equazione e rivendica il diritto ad una critica feroce alla burocrazia.

Quando burocrazia fa rima con business

Nel 2015 Graeber – già noto per il suo Debt: the First Five Thousand Years, sulle origini culturali del concetto di debito – pubblica The Utopia of Rules: On Technology, Stupidity, and the Secret Joys of Bureaucracy. Lontano dallo stile analitico della precedente monografia di antropologia economica, il libro è una raccolta di tre pamphlets, preceduti da una lunga introduzione-manifesto. Parte da un’osservazione interessante: nonostante la nostra esperienza diretta ci segnali la pervasività crescente della burocrazia in ogni aspetto della vita quotidiana (c’è un modulo da compilare per tutto, una procedura per effettuare qualunque azione, etc…), la riflessione sulla burocrazia non è più di moda ed ha perso progressivamente di attenzione dalla metà degli anni ’70. Dal suo punto di vista, la critica alla burocrazia ha ceduto il passo ad una più generale critica all’amministrazione pubblica e, più in generale, al suo peso nell’economia, a causa di una confusione di termini: “L’idea che la parola «burocrate» sia sinonimo di «impiegato statale» risale al New Deal e agli anni trenta” ci ricorda Graeber. Questo progressivo slittamento semantico ha schiacciato la riflessione sulla burocrazia ad una contesa tra difensori e detrattori del pubblico, rinforzando un nefasto sillogismo: se burocrazia è sinonimo di servizi pubblici, chi è contrario allo smantellamento dei servizi pubblici è un difensore della burocrazia. Graeber si ribella a questa equazione e rivendica il diritto ad una critica feroce alla burocrazia, intesa come forma organizzativa che trascende i settori. Dedica, infatti, larga parte del suo scritto a mostrare quanto l’incedere più inarrestabile del processo di burocratizzazione riguardi qualunque forma umana organizzata, a partire dalle grandi Corporations.

 

Oggi, la burocrazia è largamente informatizzata e più pervasiva (…). Si diffonde perché promette efficienza e terzietà, nei fatti resta uno strumento di esercizio asimmetrico di potere.

L’era della “burocratizzazione totale”

Mai come oggi è utile tornare a studiare e comprendere il fenomeno burocratico per riconoscerlo nelle sue più svariate sfaccettature, che travalicano ampiamente i confini della pubblica amministrazione: “Per gran parte della storia (…) il fenomeno ha riguardato soltanto i funzionari interni dei sistemi amministrativi, come gli aspiranti studiosi confuciani nella Cina medievale. (…) Negli ultimi due secoli c’è stata un’esplosione della burocrazia e da trenta o quarant’anni i principi burocratici dominano ogni aspetto della nostra esistenza.” Al punto da portare Graeber a definire il presente “l’età della «burocratizzazione totale» ”: inevitabile il richiamo alla profezia weberiana della gabbia di acciaio come esito del processo di razionalizzazione della società. Oggi, la burocrazia è largamente informatizzata e più pervasiva, che si tratti di chiudere un conto in banca o di vedere certificata una competenza specialistica. Si diffonde perché promette efficienza e terzietà, nei fatti resta uno strumento di esercizio asimmetrico di potere: “Anche se queste misure vengono spacciate (al pari di tutte le misure burocratiche) come un modo per creare meccanismi equi e impersonali in campi storicamente dominati dalle informazioni riservate e dai rapporti sociali, l’effetto è spesso l’opposto. ”

Forse la burocrazia e il suo apparato di regole impersonali restano il modo migliore per gestire questioni complesse, come una specie di male necessario?

Come si esce dalla “burocratizzazione totale”?

Il punto di forza di questo libro è anche il suo principale punto di debolezza. E’ divertente e scorrevole, scritto in prima persona, come fosse la trascrizione di un discorso fatto ad alta voce. Ed è pieno di storie: episodi di vita dell’autore, presi come spunto per riflettere su qualche paradosso burocratico, trascrizioni di pezzi di conversazioni anonimizzate (come quella col collega accademico che giocava ai videogiochi in orario di ricevimento studenti). E anche di Storia, come la soluzione di Gengis Khan per porre fine al potere mandarino: l’eliminazione fisica di ogni singolo funzionario dell’impero, appartenenti ad un apparato sopravvissuto ai cambi dinastici.

Ma, talvolta, la voce dell’attivista prevale su quella dell’osservatore critico e il piano descrittivo si confonde con quello normativo. Inoltre, quando compaiono riflessioni di natura più teorica, si tratta di suggestioni interpretative in ordine sparso, piuttosto che di analisi rigorose.  Anche per questa ragione, le conclusioni sono un po’ deludenti. L’invocazione alla libertà dell’immaginazione e al gioco creativo come argini alla trappola burocratica sembra ignorare la lezione di Crozier e Friedberg, che (appunto negli anni ’70, quando studiare la burocrazia era ancora di moda), avevano illustrato le vie di fuga dalla gabbia di acciaio, intese come spazi di libertà ampiamente esercitati dall’attore sociale. Infine, se da un lato sembra auspicare, come alternativa, forme di auto-organizzazione disintermediata di sapore anarchico, dove ciascuno rispetta le regole senza necessità di assegnare alcun potere coercitivo, lui stesso riconosce l’impraticabilità di tali scenari in molti ambiti della vita sociale (porta l’esempio dei criteri di priorità per il trapianto di organi).

In conclusione, viene allora da chiedersi: forse la burocrazia e il suo apparato di regole impersonali restano il modo migliore per gestire questioni complesse, come una specie di male necessario? Con che limite?

Su una cosa Graeber ha avuto ragione di sicuro: occorre tornare a occuparsi con più attenzione di burocrazia.

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