
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 21 mag 2025
- 17 giorni
- Blended
- Italiano
Fornisce le conoscenze e gli strumenti fondamentali per un effettivo esercizio della funzione di direzione della PA.
Venerdì ho avuto l’onore di essere invitata a portare un contributo ad un incontro di studio in occasione dei 40 anni del Gruppo San Martino, un’iniziativa nata nel mondo degli studi del diritto pubblico che nel tempo ha aperto al confronto con altre discipline. Sono rimasta colpita dal senso di appartenenza dei suoi membri, legati dalla reciproca stima e ispirati dalla comune passione di mettere la conoscenza a servizio dello sviluppo culturale e civile del Paese. Il titolo di questa edizione “Il cambiamento necessario. Strategie e vincoli per le riforme” evoca temi largamente frequentati da questo blog. Di seguito, alcuni degli spunti condivisi ed altri maturati ascoltando gli interventi di questa giornata-evento, ospitata dalla SPISA e con il patrocinio della SNA.
“Non c’è mai stata una fase senza cambiamenti” dice il futurologo Roberto Poli, l’altro unico non giurista presente al convegno oltre a me e pertanto l’unico che cito, per non fare torti o errori. La sua riflessione sul cambiamento, come processo connaturato ad ogni epoca, è stata spiazzante, in una giornata dedicata a questo tema. La ‘novità’, al limite, è la sua costante accelerazione. E’ questo a disorientarci. La scienza, la tecnologia e la finanza procedono e trasformano la realtà ad un ritmo che non è quello delle istituzioni pubbliche, del diritto, della politica. Questa è una chiave di lettura che mi pare utile ad interpretare le riflessioni della giornata, a proposito dei ritardi in punto digitalizzazione, di cui si sono visti gli impatti nel corso di una crisi dove la differenza di disponibilità di procedure informatizzate ha fatto la differenza; sull’inadeguatezza della disciplina che regola il rapporto tra politica e tecnica, come si è manifestato nelle incertezze di alcuni processi decisionali; oppure sulla necessità di ripensare gli assetti istituzionali dell’Unione Europea, alla luce del Next Generation EU che apre nuovi spazi di politica economica continentale; fino alla necessità di rivedere le regole del rapporto tra Stato e Mercato e la disciplina della concorrenza, in una fase di grande intervento pubblico nell’economia. Quali sono le conseguenze di questo stacco di misura tra diritto e realtà, tra PA e bisogni cui è chiamata a rispondere?
Nelle parole dei colleghi giuristi ho ritrovato un lessico familiare anche nel management, come la parola coordinamento. Il loro oggetto di analisi – se ho ben inteso – riguarda come disegnare istituzioni e norme che permettano alle varie parti del nostro sistema pubblico di integrare la loro azione. Li ho ascoltati dibattere, ad esempio, sul ruolo delle Regioni: è questa crisi la prova del fallimento della riforma del Titolo V? O, al contrario, è la prova di processi di devolution incompiuti? Il problema chiave riguarda l’inadeguatezza dei sistemi di coordinamento verticale, tra livello centrale e territori – come è apparso sulle politiche sanitarie – o anche di coordinamento orizzontale, tra ambiti di policy differenti, come nel caso delle politiche dei trasporti e della scuola?
Se rileggo questo dibattito con le lenti del public management e, più in generale, con chiavi di lettura organizzative, osservo che la principale differenza di prospettiva riguarda la concezione del coordinamento come un’istituzione (ad esempio le prerogative riconosciute alla Conferenza Stato Regioni e le modalità di funzionamento), oppure come una pratica: un’iniziativa ispirata dai significati attribuiti al proprio ruolo e a quello altrui, dal capitale di fiducia costruito nel tempo, basata sulla consapevolezza dell’interdipendenza come limite, ma anche come risorsa, esercitata prima di tutto attraverso la comunicazione formale, ma anche largamente informale. Tenere presenti le due prospettive è utile per allineare i linguaggi e mescolare le prospettive.
Quando parliamo di public management occorre mettere a fuoco a quale dominio, dei tre, di volta in volta ci stiamo riferendo. Il primo è quello che riguarda il sistema pubblico nel suo insieme, l’apparato di istituzioni, norme e prerogative in cui si articola la nostra Pubblica Amministrazione, nella sua più astratta accezione. Astratta perché – come abbiamo detto tante volte – vi è al suo interno una pluralità di enti, soggetti e organizzazioni dalle caratteristiche più svariate. Ecco perché il secondo dominio di analisi del public management è proprio il livello ‘aziendale’, ovvero la vista sul funzionamento di ciascun ente, alla luce delle sue specificità in termini di forma istituzionale, modello di finanziamento, dimensione, forma organizzativa, processi di gestione. Esiste poi un terzo dominio che completa i campi di indagine (e di intervento) del public management e riguarda il lavoro manageriale di ciascun dirigente (o PO o quadro, dipende dal modello organizzativo) all’interno della propria struttura, nell’esercizio del proprio ruolo, con le risorse assegnate. Le riforme di sistema, veicolate da nuove norme, agiscono sul primo dominio ed è il campo su cui occorre intensificare l’alleanza tra diritto e management. Ma perché abbiano un impatto a valle, occorre che diventino processi di riorganizzazione (“il cambiamento dall’interno”, come ha detto un collega amministrativista). E ancora non basta. Perché si trasformino in cambiamento duraturo, occorre che cambi la pratica nel terzo dominio, attraverso la presa di consapevolezza del proprio ruolo e dell’ampiezza dello spazio di azione, ma anche grazie alla maturazione di un’identità professionale coerente con il senso del cambiamento. Questo è il pezzo di cui non ci dobbiamo dimenticare quando scriviamo le regole, perché “here is where the magic happens”.
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