
- Data inizio
- Durata
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- 21 mag 2025
- 3 giorni
- Class
- Italiano
Definire e sviluppare strategie di mercato vincenti in contesti ipercompetitivi e iperconnessi, rafforzando creatività e metodi di analisi della domanda.
Sono ormai 6 anni (dal 2018) che, facendo parte del Comitato Scientifico per la valutazione dei Brand più inclusivi in Italia, ne seguo il processo e i progressi da “Dietro le quinte”!
L’estrema attualità del tema, la sempre più pregnante e critica strategia d’impresa e di marca, nonché l’imminenza dei risultati (2 marzo, non più di qualche giorno fa) afferenti al Diversity Brand Index 2023, mi hanno fatto riprendere (poco), ribadire e rafforzare (perché tema sempre più importante e utilizzato dai brand), nonché attualizzare (perché 3 anni dal durante al post pandemia ci hanno fatto cambiare!) quanto già nel giugno del 2020 – sebbene con una differente angolatura e a seguito di una ricerca svolta con una mia studentessa (Caterina Antonucci) … indovinate un po'? focalizzata sul fashion (!) - era stato oggetto di questo blog (https://www.sdabocconi.it/it/sda-bocconi-insight/brand-per-diversity-e-inclusion).
Snoccioliamo, quindi, il Diversity Brand Index e partiamo da quanto più vicino e caro a questa rubrica: i brand…Difficile non prenderli in esame in Branded World!
1) I Brand che hanno dimostrato e dimostrano - alcuni dal 2018 (!) e altri durante il 2022 - livello di inclusione e impegno nei confronti della D&I, tanto da essere in grado di “passare il setaccio”:
- da 356 brand citati a top-50 delle Marche percepite come più inclusive (es. Adidas, Calvin Klein, Giorgio Armani, Gucci, Lacoste, Nike, Apple, Brondi, Barilla, Coca Cola, Nonno Nanni, Dove, l’Oréal, Google, Disney, Netflix, Rai, Esselunga, Decathlon, Esselunga, H&M, Intimissimi, Lidl, McDonald’s, Zalando, Zara, Enel, Sorgenia, etc..), provenienti da diverse e numerose categorie (Apparel & Luxury, Automitive, Consumer Electronics, Consumer Service, FMCG, Healthcare&Wellbeing, Information Technology, Media, Retail, Telco e Utility );
- da 356 brand citati ai 12 brand finalisti più inclusivi (Barbie, Lavazza Group, Intesa Sanpaolo, Lines, Procter & Gamble, Netflix, Rai, Real Time, Spotify e The Walt Disney Company);
- dai top-10 brand finalisti al vincitore overall: Ikea, Brand con l’Equity più elevata in termini di Diversity & inclusion. Affianco al “vincitore assoluto” vi è anche il vincitore digitale: TIM, marca con il Miglior Progetto Digitale di Diversity & inclusion (non poteva mancare, visto l’impegno profuso dai brand in tale direzione proprio negli ultimi anni!).
2) l’Index, che sta a significare un indicatore, un numero, un risultato sintetico, calcolato e aggiornato, nonché ottenuto tramite una metodologia che, per affrontare la diversità a 360°, va osservata nella prospettiva dei brand, quale strategia volta alla D&I, con iniziative e progetti capaci di veicolare all’esterno l’impegno per l’inclusione con attività di marketing e comunicazione volti a educazione, engagement, user experience e gestione della supply chain, con uno specifico e puntuale raggio d’azione, attraverso budget e i risultati (misurati dal Diversity Brand Equity Index con una valutazione d’impatto in termini di brand equity).
Di fatto, l’inclusione diviene un driver di reputazione, fiducia, fedeltà e Net Promoter Score, che incide sulla scelta di acquisto (effetto comportamentale cognitivo) - evidenziando l’insufficienza della sola awareness - ma che serve al contempo a scatenare una reazione emotiva che si trasforma, anch’essa, in scelte d’acquisto (effetto comportamentale affettivo, emozionale) quale DE&I (Equity nella e attraverso la D&I dei brand). Fondamentale è, quindi, l’adozione di una prospettiva-consumer, in grado di misurare la percezione sul tema dei brand da parte dei consumatori, degli individui. Ciò vuol dire, primariamente, partire dalle percezioni del mercato finale (campione statisticamente significativo della popolazione italiana con 1.037 rispondenti) attraverso un metodo (CAWI realizzata a fine 2022) passando dai brand “nominati” ad una “valutazione” più puntuale da parte dal mercato finale per ciascuno dei brand e relativamente a ciò che il/i brand citato/i - ed effettivo portatore (attento e vero) di un puntuale brand positioning nella D&I - è in grado di fare, fornire, trasferire e “far sentire” in termini di coinvolgimento (involvement), facendosi percepire come “migliore” (DE&I Best in Class) per le sottese motivazioni (Brand Assessment), considerando “quanto e come” le iniziative sviluppate trattino e accolgano al proprio interno le dimensioni sociale, individuale (Individualism & Collectivism), etiche (Ethics), così rilevanti per ciascuno degli intervistati (Socio-demo Profile).
3) la Diversity, oggetto della ricerca, è stata focalizzata sugli ambiti relativi alle forme di diversità quali genere, etnia, LGBT+, generazioni ed età, status socio-economico, disabilità, religione e credo, cui si aggiunge l’ottava forma di diversità, riconosciuta in letteratura: l’aspetto fisico (basta rammentare che la locuzione di body shaming prende le sue movenze dalla pratica di offendere qualcuno riguardo al suo aspetto fisico!) che assumono crescente rilevanza etico-economica. La capacità dei brand di “coprire” le diverse forme di diversità incide significativamente sull’equity di marca!
L’indicatore oltre a misurare le percezioni del mercato finale in merito alle azioni di D&I poste in essere dai brand e il loro impatto (concreto!) sulla fedeltà ai brand e sul Net Promoter Score, nonché il “portato emotivo” che i brand devono perseguire verso il mercato, evidenziano come – nel corso del tempo - si affermi un nuovo paradigma strategico ed operativo che consideri la diversità nella sua interezza e strettamente connesso al “ruolo sociale” dei brand nella creazione e nello sviluppo di una una vera, reale, concreta e autentica cultura inclusiva da trasferirsi di continuo e coerentemente al mercato, giungendo al consumatore e alle persone, per potersi effettivamente distinguere, in un’arena competitiva sui temi D&I sempre più affollata, con impegno, dedizione, cultura.
Sintetizzo volutamente solo alcuni punti che mi hanno colpito particolarmente proponendone una visione dinamica.
a) Lo spostamento nella rilevanza della D&I per brand e consumatori. Far crescere l’importanza del tema e la relativa transdiversity o transinclusività è sempre più importante e sempre più “richiesta e vista dal mercato”. Del resto, gli stessi brand hanno seguito e continuato un percorso evolutivo verso la D&I, rivolgendosi maggiormente all’esterno.
Infatti, da un lato, si riscontra una crescente consapevolezza assunta dal mercato sul tema, tanto che i consumatori, sempre più consapevoli, premiano i brand più inclusivi consigliandoli o giungendo a sconsigliare quelli, invece, non inclusivi, evidenziando come la «neutralità» per i brand non è più una scelta possibile in quanto è l’inclusione un fattore premiante, visto, capito, percepito e…scelto dai consumatori per i brand.
Dall’altro lato, la maggior maturità del mercato in merito all'importanza di questi temi emerge dal trend, ravvisabile negli ultimi 5 anni nel mix, nel bilanciamento e nell’integrazione delle differenti tipologie di iniziative impiegate. Inizialmente, la maggior parte delle iniziative sono sorte e si sono sviluppate in ambito HR, ma con il passare del tempo hanno avuto uno spillover ed una estensione del proprio raggio d’azione verso l’esterno, con una crescente visibilità da parte del “mercato esterno”. Oggi, di fatto, si riscontra una maggiore consapevolezza relativamente a una necessaria coerenza e integrazione tra interno ed esterno, e le marche hanno compreso come il tema della DE&I in una prospettiva B2C deve essere affrontato con approcci sempre più specifici. I dati dimostrano questa trasformazione: negli anni si è spostato il baricentro delle iniziative candidate dall'interno (scese gradualmente dal 65% del 2017 al 10% del 2022) all'esterno (salite al 90% nel 2022, 83% nel 2021, vs 68% nel 2020, 56% nel 2019, 48% nel 2018 e 35% nel 2017).
b) I ruoli – che prendono parte alla ricerca, ma che all’interno delle aziende “muovono” i brand verso la D&I – sono sempre più presenti e prendono parte alla Governance (concetto quanto mai ampio e spesso poco chiaro!).
Esiste un fortissimo legame virtuoso che lega D&I, etica e business e, quindi, conoscenze, competenze e ambiti disciplinari diversi tra loro chiamano in causa non solo il management (marketing, branding e business, in generale) ma anche psicologia, sociologia, innovation, trust e così via, con le necessarie diverse geografie e angolature che, a titolo esemplificativo per la ricerca in oggetto, si sono “riversate” nel tempo all’interno del Comitato Scientifico, cui spetta il compito di valutare l’effettiva portata dei brand in termini di D&I verso il mercato, i consumatoti, le persone, gli individui.
Ma non solo; le diversità sono quanto mai ampie e sfaccettate per forme, sotto-forme (!), ambiti e contesti, si evolvono nel tempo e, benché acquisiscano differente rilevanza, richiedono un crescente transdiversity-approach (impegno intersezionale alla D&I rivolta al mercato finale). Inutile nasconderlo, diviene necessario e fondamentale che esperti acuti e fini osservatori, nonché conoscitori, diretti fruitori o portatori di diversità, nonché “difensori” e baluardi contro la discriminazione connessa a disabilità, aspetto fisico, genere, LGBT+, età, etnia e così via, divengano parte integrante della D&I. Nel caso della ricerca, un panel attivo, denominato Comitato Security Check (un comitato nuovo, ha solo due anni!) assicura ed è garante che i temi e le promesse sia autenticamente trattate e trasferite dai brand nel raggiungere “i” mercati, evitando che si incorra in situazioni di diversity washing!
La cultura della D&I dipende da cultura organizzativa e dalla “famosa” relazione che da sempre ha collegato strategia-struttura e da cui dipendono le condotte strategiche d’impresa e dei brand.
Qualsiasi Brand perché raggiunga e persegua la sua Equity non può prescindere dal mercato, così come accade per il DE&I.