Branded World

Bentornati … con l’Artificazione di marca

Mi auguro che questo pezzo vi trovi ricaricati e rigenerati dopo quella che, spero, sia stata una pausa estiva ricca, rilassante e contemplativa!

 

“Contemplare”, “osservare” e “far proprio il mondo circostante” – cercando di portare con noi il ricordo, o i piccoli e grandi frammenti di ciò che è stato - è uno dei modi per tornare alle nostre scrivanie, al nostro lavoro e affrontare il tram-tram della quotidianità, con i tempi (per me sempre più lenti) necessari alla ripresa!

Insomma, bentornati e ben ritrovati nel nostro blog Branded World e...

...riapriamo con l’artificazione.

Artificazione: carneade chi è costui?

Il tema, indubbiamente affascinante, oggetto e obiettivo di moltissime marche negli ultimi anni, è anche un recentissimo “call for paper” (scadenza fine agosto!) - cui abbiamo immediatamente aderito con l’amica e collega Antonella Carù - che alcuni ricercatori (Alex Turrini, Marta Massi e Chiara Piancatelli) hanno proposto per una edizione speciale del Journal of Philanthropy and Marketing. Non fatevi fuorviare dalla denominazione della rivista; affronteremo il tema dell’artificazione da un punto di vista di brand (non con una prospettiva filantropica, sebbene anche per quest’ultimo le marche si siano o si vadano organizzando!)

 

Sociologi, antropologi, storici, architetti, ricercatori e studiosi di management, marketing e branding, nonché CEO, executive, manager, recentemente si sono dedicati a processi di trasformazione della non-arte in arte (Oddio!), ovvero del trasferimento e della modifica dell’arte all’interno di prodotti, comunicazioni, esposizioni, commercializzazione e così via. La “riqualifica” e la “nobilitazione” delle cose passa per qualcos’altro che diventa un’opera: il produttore, il fondatore, il cuoco divengono artisti; la produzione diventa una creazione; gli osservatori, gli astanti, i visitatoti, gli shopper assumono il ruolo di pubblico, e così via.

 

Per designare tali processi si fa ricorso al neologismo dall'inglese: “artification”; benché il termine possa assumere una connotazione negativa/dispregiativa - poiché l'artificio sarebbe la fabbricazione dell'artificiale, inteso come un'operazione ingloriosa di mercificazione, volta a distruggere l'autenticità delle cose - non è questa la prospettiva che vogliamo sottolineare, invero ne assumiamo il senso puramente descrittivo.

 

L’artificazione apporta cambiamenti e modifiche concrete di progetti, contenuti, forme, attività, costruzioni, realizzazioni e così via, determinando non solo lo spostamento del confine tra arte e non arte, ma anche un ripensamento e la costituzione di nuovi mondi (non solo dell’arte tout court), popolati da nuove entità in costante aumento; basti pensare alle professioni strettamente artistiche (architetti, designer, graphic designer, fotografi, video-maker, content creator, direttori artistici, etc.) o a coloro che ne fanno una pratica amatoriale (quanto ci siamo cimentati durante le vacanze, ripiangendo di non possedere un drone, per fare delle fotografie “spettacolari”!), nonché alle stesse istituzioni “culturali” o che vogliano svolgere un “ruolo culturale”, in continuo sviluppo, sia che rientrino nell'azione pubblica sia che siano presenti nell'economia di mercato.

Artificazione di marca

I processi di artificazione sono emersi in numerosi ambiti/settori, tra cui moda, tempo libero, turismo, intrattenimento, sport, hospitality, largo consumo e tecnologia; inoltre, l'artificazione può assumere diverse forme, rientrando a pieno titolo all’interno del cambiamento sociale, culturale e manageriale cui si assiste da tempo.

 

I luoghi, le imprese, i retailer, le persone come brand, sono coinvolti nei “processi di artificazione”. Una popolazione sempre più numerosa e sempre più diversificata si impegna nell'artificazione e ne trae, ove opportuno, benefici e vantaggi, raggiungendo equity.

  1. Il branding dei “prodotti architettonici” e la promozione di “edifici iconici” si sono attualmente trasformati da una moda in una domanda crescente, soprattutto all’ombra della competizione internazionale tra nazioni, città e luoghi per posizionarsi sulla mappa del mondo architettonico. Questa osservazione non è nuova, risale alla metà del XX secolo, con la primissima ascesa di “Iconic Buildings” e di “Starchitects”, che nel tempo hanno promosso la loro architettura quale emblema di eccellenza e distinzione. Esempi ben noti come Frank Ghery, Zaha Hadid e l’emergere di edifici che hanno aggiunto icone alle città come il Centre Pompidou, l’Opera di Sydney e molti altri. Le città hanno sviluppato progetti volti ad abilitarne la credibilità globale attraverso il branding di architetture iconiche: Barcellona, Glasgow, Bilbao, cui si aggiungono Los Angeles, Berlino e, tra le altre, difficile non citare Dubai, presente in copertina di famosi periodici di architettura per gli edifici più alti, più grandi e più sofisticati del mondo, ambendo al suo posizionamento di marca attraverso la sua architettura.
  2. Le imprese creano o innovano sostenendo l’opera di alcuni artisti o assumendoli, oppure fondano musei d'arte aziendali (ad esempio, Ferragamo o Gucci), espongono o inseriscono nei propri prodotti di marca le opere d'arte (Mondrian o Van Ghog per le borse o gli abiti), quando avviano collezioni d'arte aziendali (Deutsche Bank) o, ancora, quando promuovono interventi legati all'arte nel loro ambiente di lavoro. In effetti, le organizzazioni sviluppano “partenariati creativi”. Le collaborazioni artistiche possono sfociare in premi o progetti atti a favorire la visibilità degli artisti; alcuni esempi: Diesel che, con Diesel Wall e Dieselreboot ha voluto presentare le opere di alcuni artisti contemporanei fuori dalle mura istituzionali di musei o gallerie d’arte; Each x Other ha “incorporato” in maniera sistematica le collaborazioni artistiche all’interno del proprio processo creativo. Di fatto, incorporare le arti nella vita organizzativa implica sia un coinvolgimento a livello gestionale nello specifico contesto organizzativo (non è raro che si assumano musicisti, fotografi o designer come direttori creativi o artistici) sia un “impiego” quale linfa innovativa per alimentare il potenziale umano e la creatività (Bonotto, all’interno della fabbrica, esponeva quadri d’autore affinché i dipendenti potessero “abbeverarsi” delle bellezze artistiche!).
  3. I retailer, mono o plurimarca, dal lusso al largo consumo, per assicurare ai propri clienti la sensazione di unicità e il coinvolgimento emotivo per un’esperienza immersiva nell’atmosfera del punto di vendita e “seducente”, sono prodighi nel trasportare i clienti verso altri e diversi orizzonti (non solo acquisto, ma shopping, o meglio shopping esperienziale), almeno per la durata della permanenza all’interno del punto vendita. L’artificazione per i retailer diviene quell’azione intenzionale nel “rendere speciale” o “rendere straordinaria la realtà ordinaria”. Ed ecco che i retailer assumono più frequentemente l’aspetto di gallerie d’arte o di musei, con esposizioni, sponsorizzazioni e spazi dedicati all’arte, “organicamente” mescolati alle aree di vendita, con un concetto di arte allargato a performance teatrali o musicali (ad esempio, il Gruppo Klepierre sono anni che trasferisce ai suoi clienti, all’interno dei centri commerciali, modi e forme di intrattenimento artistico-musicale a cui poter partecipare attivamente e non solo assistere)
  4. Un ulteriore percorso è quello dell'artificazione sviluppata da o attraverso le persone: artisti come Andy Warhol, che chiamò il suo studio Andy Warhol Factory; la “Culture Chanel” diffusa nel mondo esplorando le radici dell’ispirazione e della vita personale di Gabrielle “Coco” Chanel, a partire da quando era bambina, con mostre, video, immagini reperibili online e sui social media. Lo stesso può dirsi di chef e cuochi che fanno ed espongono i propri lavori come opere d’arte…dimostrando che si è artista, da cui consegue che tutte le sue opere sono arte e non semplici prodotti e che l’artificazione passa per le mani dell’artisan!

 

 

Massi e Turrini (2020) - attraverso una ricerca nel settore della moda - hanno classificato le diverse iniziative di artificazione in tre potenziali livelli, collocati all’interno di un continuum, distinguendo tra loro: sinergie, contaminazioni e ibridazioni; tale classificazione permette di considerarne forme, attività, modalità e intensità gestionale per i brand.

  1. Le sinergie possono interpretarsi come collaborazioni di “prima mano” o primo punto di contatto tra il mondo dell'arte e quello dell'impresa; esse rappresentano collaborazioni costruite per raggiungere obiettivi diversi senza influenzare radicalmente (o contaminare) la natura dell'azienda/marchio o dell'istituzione artistica/artista coinvolta. Esempi di sinergie includono le sponsorizzazioni, le iniziative di mecenatismo e le collezioni d’arte aziendali.
  2. La contaminazione avviene quando le proprietà chiave dell’arte si riversano sui brand, influenzando conseguentemente la valutazione dei consumatori. Gli effetti di contaminazione sono reciproci: le organizzazioni possono, infatti, contaminare l’arte, ad esempio, quando gli artisti sono invitati a creare opere d’arte partendo da prodotti o quando le aziende mostrano un profondo impegno verso le arti, come nel caso di musei o fondazioni artistiche aziendali.
  3. Infine, le ibridazioni sono collaborazioni caratterizzate da un livello estremo di interazione che implica l’intersezione di forme e generi, realizzando “innesti” tra “cultura artistica/alta e quella commerciale”. L’ibridazione può assumere diverse forme (così come espresso dagli autori analizzando l’ambito della moda e del lusso): la creazione di prodotti artistici, dalla collaborazione tra aziende e artisti per sviluppare capsule collection iconiche o edizioni limitate (ad esempio, la Collezione Mondrian di Yves Saint Laurent); la vendita al dettaglio, attraverso “una nuova forma di estetica spaziale” (ad esempio, esposizione in negozio di opere d’arte permanenti o temporanee); la raffigurazione dei brand element, di natura identitaria, basati sull'arte, come l'installazione Prada Marfa, creata dagli artisti Michael Elmgreen e Ingar Dragset e collocata nel deserto del Texas; la pubblicità di prodotto, brand o impresa, riferendosi o basandosi sull’arte o su opere note e artistiche esaltando la percezione dell’ “oggetto comunicato” (basti pensare, ad esempio,  all’ultimo spot di Coca Cola. Più iconico di così!).

 

Ciò aiuta a spiegare perché le “forme d’arte”, con la conseguente atificazione per i brand, sono sempre più varie e inaspettate e, se quest’ultima diviene la regola, è opportuno (per non dire fondamentale!) considerarne il processo sottostante, che richiede tempo e investimenti. Tempo, perché l’artificazione necessita di scouting, selezione, scelta e realizzazione di una collaborazione “attiva” di autorità artistiche, artisti, organizzazioni, decisori, persone e così via e, in ottica branding, i necessari investimenti, posto che l’obiettivo è di rafforzare l’immagine di marca, elevando o alimentando il suo status nei “nuovi mondi” della nostra società.

Massi, M., & Turrini, A. (2020). When Fashion Meets Art: The Artification of Luxury Fashion Brands. In The Artification of Luxury Fashion Brands (pp. 1-32). Palgrave Pivot, Cham.

SHARE SU