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E se poi lo scoprono?

La chiamano “sindrome dell’impostore”.

Si tratta di un'esperienza psicologica tale per cui si vive internamente una percezione di non meritare i successi personali raggiunti. Il fenomeno fu scoperto e descritto per la prima volta nel 1978 dalle due psicologhe Pauline Clance e Suzanne Imes. Coloro che sono soggetti a questa condizione sottostimano costantemente le proprie abilità, credono che gli altri abbiano percezioni eccessivamente positive rispetto alle loro competenze, e vivono regolarmente la paura di essere valutati. Ogni volta che viene richiesto loro di esporsi temono di essere “smascherati”.  Questa esperienza psicologica persiste nonostante i continui successi. Gli stessi successi sono infatti quasi sempre attribuiti a fattori esterni come fortuna, o piuttosto a una errata valutazione altrui.

 

È stato riscontrato che si tratta di un fenomeno piuttosto diffuso (circa il 70% della popolazione ne soffre o ne ha sofferto) e che spesso lavora a livello inconscio. La sensazione che si avverte è quella di essere in trappola e di non sapere come liberarsi da questi continui pensieri negativi. E la diretta conseguenza di questo sono livelli eccessivi di stress e ansia, che si ripercuotono sulle prestazioni al lavoro. Che fare quindi se si ha il sospetto di soffrire di questa sindrome?

Il primo step è quello di esserne consapevoli. Che tipo di risposta diamo a domanda quali:

  • Ti agiti eccessivamente quando commetti piccoli errori al lavoro?
  • Attribuisci il tuo successo a fattori esterni?
  • Sei particolarmente suscettibile quando ricevi feedback costruttivi?
  • Credi che presto o tardi tutti scopriranno che sei fasullo/a?
  • Tendi sempre a minimizzare le tue competenze?

Se la risposta è affermativa, la reazione immediatamente successiva sarà verosimilmente quella di voler trovare un rimedio. Ebbene, Amy Cuddy, psicologa e docente all’Università di Harvard, rivela l'importanza di quei segnali non verbali come ad esempio il mantenere le braccia aperte durante una conversazione, o il contatto visivo con l’interlocutore nel modellare la mente e la propria auto-percezione (non solo la percezione altrui). Nella sua ricerca, ci spiega come alti livelli di testosterone e bassi livelli di cortisolo ci aiutano a sentirci più potenti. Al contrario, alti livelli di cortisolo possono aumentare l'ansia e ridurre la nostra fiducia. Ha quindi osservato che le cosiddette “power poses” (braccia aperte, mento in alto, mani sui fianchi) producono livelli di testosterone più elevati rispetto a pose più “timide” (postura leggermente accasciata, spalle in dentro, occhi bassi). Il suo consiglio per tutti coloro che dovessero soffrire della sindrome dell’impostore, divenuto famoso grazie a un suo Ted Talk del 2012, è “Fake it until you become it!”, volto a sottolineare il processo secondo il quale agendo sul proprio comportamento è possibile modificare i propri pensieri. Di conseguenza si può sconfiggere la terribile autopercezione di non farcela e di non essere all’altezza.

Questa rappresenta certamente una modalità, anche se, a detta di molti un po' “in salita”. Non è infatti così immediato applicare quanto spiega Cuddy, e in alcuni contesti, potrebbe apparire addirittura impossibile.

Ecco allora che potrebbe essere interessante valutare quanto dimostrano alcuni studi recenti.

 

Basima Tewfik, assistant professor al Massachusetts Institute of Technology, ha scoperto che i comportamenti che gli "impostori" esibiscono nel tentativo di compensare la loro insicurezza possono effettivamente renderli migliori dei propri colleghi in ambito lavorativo. Adottando un orientamento più incentrato sull'altro nelle loro interazioni sociali, “sono più empatici, ascoltano meglio, fanno domande migliori", spiega Tewfik. Inoltre, negli esperimenti da lei condotti, i pensieri tipici degli “impostori” non sembravano danneggiare le loro performance rispetto a quelle dei colleghi.

 

In sintesi, la sindrome dell’impostore potrebbe nascondere qualche lato positivo. Forse, secondo alcuni, si potrebbe addirittura smettere di definirla “sindrome”. Oppure potrebbe esistere una “giusta dose” di pensieri da “impostore” in grado di farci muovere nella giusta direzione senza che si scatenino in noi reazione di eccessiva ansia o stress.

 

Forse la chiave sta proprio nel sintonizzarsi rispetto alle sfumature di ogni contesto e notare quando i pensieri di impostore emergono e chiedersi: questi pensieri sono utili? Se lo sono, ci spingeranno nella direzione del miglioramento continuo. Se, al contrario, non lo sono, finiranno per sabotare le nostre performance. Imparare a comprendere e valutare questi pensieri, senza necessariamente attribuirgli una valenza negativa fin dal principio, potrebbe rivelarsi la competenza necessaria per gestire se stessi e gli altri in modo più efficace e positivo.

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