#ValorePubblico

Vado a vivere da solo?

La protesta degli universitari di questi giorni, non a caso scoppiata in una delle città con la più alta tensione abitativa come Milano, è all’incrocio di vari temi che riguardano le politiche e i servizi pubblici nel nostro paese: il diritto allo studio, il diritto alla casa, le politiche giovanili. Ecco come.

I giovani, la casa in affitto, i concorsi che vanno deserti

Ora, solo quelli chiaramente non più giovani sanno che questo è anche il titolo di un film campione di incassi dei primi anni ’80 con Jerry Calà che raccontava la storia del rampollo di una famiglia borghese di Milano, che fa finta di fare l’università, fuori corso da una vita, e decide di andare via di casa: una sorta di NEET d’altri tempi. Neanche a dirlo, per realizzare il suo desiderio chiede i soldi di mamma e papà, come molti, ancora oggi. Con tutte le contraddizioni che questa cosa comporta. Alla fine di una storia non memorabile, il protagonista finisce a vivere... in tenda in città! Una profezia?

 

Lavorando proprio in queste settimane con Eleonora Perobelli e Vittoria Baglieri alla ricerca sulle diseguaglianze abitative a Milano insieme ai colleghi del DAStU del Politecnico di Milano, tra cui Massimo Bricocoli e Marco Peverini, ci siamo imbattute su alcuni dati che ci sembrano avere molto a che fare con questo dibattito.

 

Il primo riguarda l’evoluzione demografica: a Milano, tra il 2012 e il 2022 si registra un incremento del 14,8% della popolazione di età compresa tra 25 e 35 anni, per un totale di circa 24.000 soggetti in più, contro lo 0,3% del resto del territorio metropolitano e i tassi negativi di altre aree del Paese. In altre parole, l’inverno demografico non si abbatte in egual misura in tutto il territorio: le grandi città sono poli di attrazione dei più giovani, certamente grazie alle università, ma anche per le maggiori opportunità occupazionali.

 

Il secondo è relativo al mercato degli affitti. La scelta di lasciare il luogo di origine (per studiare o lavorare) resta una delle principali ragioni per cui si lascia la casa familiare e, tipicamente, si va a vivere in affitto: a livello nazionale, poco meno del 50 % dei giovani che abitano da soli (under 35) e il 40% delle giovani coppie senza figli vive in affitto. Sembra una cosa ovvia, ma non lo è se consideriamo che l’Italia è stata a lungo una Repubblica fondata sulla casa di proprietà (oltre l’80% della popolazione vive nella casa che possiede): chi si sposta (soprattutto i più giovani) hanno bisogno di affittare una casa.

 

Il terzo dato viene invece da una ricerca realizzata nell’ambito del master EMMAP, relativa al fenomeno del drop out dei concorsi: a Milano, più che altrove, sono proprio gli under 35 quelli che non si presentano al concorso anche se hanno fatto domanda o che, anche se vincitori, rinunciano al posto. In alcuni casi i tassi di abbandono sono di oltre la metà. Tra le motivazioni principali vi è il problema casa. Il posto fisso è attraente anche per la possibilità di progettare il proprio futuro con più libertà. Ma se richiede tempi di spostamento impossibili, o costi incompatibili con lo stipendio di ingresso da dipendente pubblico, oppure ancora impone di condividere una casa (quando non anche la stanza) con degli sconosciuti, come all’università, allora quel posto tanto ambito, smette di essere un’opportunità. Se già studiare fuori casa è un costo non accessibile a tutti, il rischio è che anche lavorare nelle grandi città diventi un privilegio riservato a quei giovani che possono fare affidamento su risorse che non dipendono dal reddito da lavoro.

In altre parole, dopo aver gentrificato la città, il rischio è di gentrificare anche l’accesso al lavoro, incluso quello pubblico.

Case popolari? Non è un posto per i giovani

Oltre cento anni fa, per accompagnare fenomeni migratori che portavano i lavoratori dalle campagne alle città in cerca di un impiego nella nascente industria nacquero gli Istituti Autonomi Case Popolari (IACP) finalizzati alla costruzione di nuovi immobili, in genere localizzati a ridosso dei neo insediati siti produttivi. Da allora, fino agli anni ’70, i processi migratori interni sono stati sostenuti dall’allestimento di soluzioni abitative a canoni compatibili coi salari da operai, da cui sono nati interi quartieri, con tutte le contraddizioni tipiche della ghettizzazione dei “nuovi arrivati”. Oggi le aziende eredi degli IACP (Aler, Ater, Acer, etc…) hanno sostanzialmente smesso di costruire (un po’ perché si è smesso di investire in tutte le infrastrutture sociali, incluse scuole e ospedali, un po’ perché lo spazio nelle città è finito, un po’ perché quello che resta è stato destinato al mercato) e si trovano a gestire un patrimonio abitativo dove i giovani sono sostanzialmente esclusi.

 

Prendendo il caso di Milano (ma il dato è comune a quasi tutte le grandi città) nelle case popolari abitano, infatti, per lo più persone anziane (oltre la metà ha più di 65 anni) e vi abitano da decenni (poco meno del 60% vi abita da almeno 20 anni). Sono in genere pensionati, certamente non abbienti, ma in genere – proprio perché ex lavoratori – non appartenenti alle fasce di reddito più basse. Il turnover (gli alloggi che ogni anno possono essere riassegnati a nuovi inquilini in graduatoria) ammonta a circa il 4% del patrimonio e viene in genere destinato a coprire il fabbisogno abitativo dei più fragili: due terzi dei nuovi inquilini, infatti, sono prossimi alla soglia di povertà con un ISEE (calcolato sui parametri dell’ERP) inferiore ai 9.000 euro all’anno. Altri scalano le graduatorie perché portatori di gravi forme di disabilità (37%). In sostanza,

se ieri le case popolari erano una misura che accompagnava i flussi migratori per sostenere il lavoro, oggi sono in prevalenza uno strumento (largamente inadeguato) per fronteggiare la marginalità.

E i giovani? Se guardiamo alle domande di accesso ad alloggi popolari (e quindi non chi è effettivamente entrato, dato ancora più esiguo) solo il 2,9% nel 2021 aveva tra i 18 e i 25 anni; mentre il 16,1% aveva tra i 26 e i 35 anni. In un contesto come quello descritto, la casa popolare non è un posto per giovani. Viene pertanto da chiedersi se non siano proprio i giovani – soprattutto se non residenti – uno dei vuoti più drammatici delle politiche abitative. Quindi, se oggi il tema della casa scala le prime pagine dei giornali con riferimento agli studenti, occorre chiedersi: e gli altri giovani? I giovani lavoratori, i giovani stranieri, i giovani in generale? Quelli senza eredità o rendite familiari su cui fare affidamento? Chi ha in mente quale sia il loro posto (a partire dalla casa), nelle grandi città?

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