
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 21 mag 2025
- 17 giorni
- Blended
- Italiano
Fornisce le conoscenze e gli strumenti fondamentali per un effettivo esercizio della funzione di direzione della PA.
Appunti a margine della mia lezione nel modulo di apertura della tredicesima edizione di EMMAP. Benvenuti a tutti i nuovi partecipanti, anche da parte di #ValorePubblico
Per spiegare che cosa vuol dire lavorare sui comportamenti con l’executive education mi capita spesso di usare una scena del film “The Terminal” di Spielberg, dove Tom Hanks interpreta Navorsky, straniero in arrivo dall’est Europa e bloccato nel terminal dell’aeroporto di New York, per via di una kafkiana trappola amministrativa cui nessuno pare trovare via d’uscita. Nella scena che propongo, l’antagonista del povero esule è il capo della sicurezza dell’aeroporto, Frank Dixon, interpretato da Stanley Tucci, che – insensibile alla dimensione paradossale in cui si trova l’esule – assicura il rispetto delle regole, per quanto assurde, impedendo all’esule di uscire dall’aeroporto. Durante la permanenza di Navosky al terminal, Dixon si trova a gestire una situazione di crisi proprio il giorno in cui il suo operato è oggetto di valutazione esterna: un passeggero straniero appena arrivato a NY, anche lui russofono, minaccia di tagliarsi la gola quando scopre di non avere i documenti in regola per portare con sé alcuni medicinali salvavita. La vicenda si risolve con l’intervento di Navorsky – coinvolto dal capo della sicurezza come interprete d’emergenza – che trova un escamotage a vantaggio del passeggero in transito con i farmaci, suscitando le furie più nere del personaggio di Tucci, che si sente raggirato.
La cosa interessante di questa vicenda non è tanto l’eroismo del protagonista che aiuta con una furberia amministrativa il suo connazionale a schivare i vincoli sul trasporto di medicinali, quanto la vicenda di Dixon, il capo della sicurezza, che proprio nel giorno in cui ha tirato a lucido le piume della coda in attesa di sfoggiarle a ruota per la sua valutazione, finisce invece col prendersi un rimbrotto dal suo supervisore per eccesso di rigidità e scarsa umanità. Eppure, il “povero” capo della sicurezza non fa che applicare le regole! Non solo le regole scritte, ma anche quelle non scritte, quelle apprese nell’esercizio del suo mestiere e che di solito, in qualche modo, funzionano: interpreta la situazione di crisi con il filtro della diffidenza che è solito usare con un narcotrafficante qualunque, senza fare troppo caso agli elementi del contesto. Tratta il passeggero come un pericoloso criminale, anche quando l’unica visibile minaccia all’orizzonte è che la crisi da gestire gli rovini il giorno della valutazione. Esige un rispetto rigidissimo anche di quelle regole che allo spettatore (a torto o no) possono sembrare ottuse o contraddittorie, ma mostra tutt’altra flessibilità quando si tratta di promettere un trattamento di riguardo a chi è disposto ad aiutarlo.
Ora, Dixon ha tutte le caratteristiche per essere l’antieroe della storia, quello con cui lo spettatore non si identifica mai. Ma a prestarci più attenzione, questo dirigente della sicurezza dell’aeroporto racconta col suo comportamento quello che la letteratura sulla critica alla burocrazia (da Merton a Gouldner, da Selznik a Crozier) ha illustrato con molte più parole, sul formalismo burocratico, sull’incapacità di adattamento e sull’emersione di strategie disfunzionali, autoconservative e difensive. In questo senso, Dixon ci è più familiare di quello che ci piace pensare.
Alla fine della visione della scena e della discussione in aula, di solito arriva una domanda: e quindi? Che si fa? Come si fa far cambiare atteggiamento a Dixon? Il suo supervisore, da bravo capo, gli offre un feedback: gli fa notare cosa non gli è piaciuto, gli ricorda non tanto le regole, ma i valori e i principi cui le stesse sono ispirate e cui si devono riferire, gli mostra un modello positivo e, in conclusione, gli offre una seconda chance.
A noi Dixon mostra plasticamente come il comportamento nell’organizzazione sia largamente ispirato da una sorta di filtro interno: una lente deformante che definisce la nostra interpretazione della realtà, ci porta a selezionare i fatti cui dare peso, a costruire ipotesi di causa-effetto, a scegliere il nostro obiettivo, a valutare le alternative, a soppesare i rischi e, infine, a decidere.
E quindi, no, non basta scrivere procedure più dettagliate per aiutare Dixon a meglio gestire un evento inatteso, né è solo una questione di meglio ingegnerizzare gli incentivi. Per cambiare atteggiamento, occorre cambiare punto di vista.
Quando si dice – forse un po’ enfaticamente – che l’executive education, soprattutto nei contesti dei programmi lunghi come i master, è un’esperienza trasformativa, come oggetto trasformato si intende proprio il punto di vista sulle cose: l’ambizione è che l’allenamento ad applicare nuove categorie di analisi porti a moltiplicare (qualche volta anche a cambiare) i filtri con cui si leggono le sfide professionali e manageriali. E che da qui, pertanto, sorgano azioni e decisioni nuove, diverse, più efficaci.
In questo senso, l’executive education non può essere solo addestramento all’uso di tecniche e strumenti manageriali. È anche questo. Ma è in primo luogo occasione di rilettura dell’efficacia della propria azione in un contesto organizzato, che si impara a leggere con categorie nuove.