#ValorePubblico

Nazi Public Management?

Nazi Public Management?

Ogni tanto #ValorePubblico racconta di (o prende spunto da) un libro che parla, in maniera diretta o meno, di temi del management pubblico e dintorni. Questa settimana – fresca della pausa natalizia che favorisce il tempo della lettura – il libro proposto ha un titolo inquietante: Nazismo e Management.

E’ un libretto agile, di circa cento pagine, scritte dallo storico francese esperto di nazismo Johann Chapoutot, costruito attorno alle vicende umane e professionali di Reinhard Honn, generale delle SS e intellettuale organico al regime nazista, che dopo il crollo del regime si reinventa una vita da professore di management. L’autore ripercorre le gesta e il pensiero di questo ex gerarca che negli anni del regime scrive di come organizzare la cosa pubblica e, dopo la guerra, di come organizzare l’impresa. Non solo, ma partecipa alla fondazione di una scuola di management nella Germania dell’Ovest, destinata fino agli anni ’70 (quando il suo passato criminale viene scoperto) a contribuire alla formazione dei manager della ruggente Germania federale.  

La storia e gli scritti di Honn sono il dispositivo narrativo che usa l’autore per porsi alcune domande – da storico – sul management. Le questioni che solleva sono tali e tante che ci ho provato a scrivere un post che le affrontasse in batteria, ma non sono riuscita a farlo senza tenermi alla larga da questioni forse davvero un po’ troppo presuntuosamente e indegnamente intellettuali. 

 

Per farla più semplice il punto di questa non-recensione è: perché un manager della PA o una persona appassionata al tema potrebbe provare curiosità per questo libro? 

 

La prima ragione è che offre un’interessante (ed anche sorprendente) descrizione dell’organizzazione dell’amministrazione dello stato in epoca nazista. Al contrario dell’estetica delle grandi parate, dominate da ordine e sincronia maniacale, la gestione della cosa pubblica del Terzo Reich è caotica, convulsa, dominata dalla superfetazione di agenzie e nuove strutture dirette come feudi di gerarchi in costante competizione tra loro per la vicinanza al Fuhrer. I conflitti di responsabilità, le contraddizioni, le sovrapposizioni non sono solo il frutto di processi decisionali sconnessi e modesta costanza nell’implementazione, ma anche una deliberata strategia del caos, dove l’ordine legale e razionale è superato dall’esercizio illimitato della volontà del capo. In ultima analisi, la via per distruggere le fondamenta dell’amministrazione dello stato nel suo impianto di matrice liberale. Nel leggere queste pagine, la tentazione di vederci alcune ‘fantasie’ di ispirazione New Public Management è abbastanza irresistibile. E, ancora una volta, ci aiuta a leggere in controluce la rigidità e impersonalità della burocrazia: è più facile intuire perché – nonostante tutto – costituisca ancora oggi il male minore, in quanto argine all’esercizio dispotico del potere pubblico.  

 

La seconda ragione è che questo scritto mostra come le riflessioni attorno alla pratica del management – sia essa dell’esercito, dell’amministrazione nazista, di un’impresa privata del secondo dopoguerra – si possano assomigliare in maniera inquietante. Leggere le teorizzazioni della delega, dell’autonomia del lavoratore o delle tecniche di motivazione scritte da intellettuali nazisti è un’esperienza disturbante. Le tesi cui arriva Chapoutot sono discutibili e forse anche un po’ ingenue (di fatto è lo sguardo di uno storico del nazismo e non certo di uno storico del management). Ma è interessante la riflessione su quanto il nazismo e il suo apparato organizzativo, così come il pensiero sulla gestione dell’amministrazione dello stato e dell’impresa siano in qualche modo prodotti dalla stessa matrice culturale, ovvero quella della società industriale del ‘900 e del processo di razionalizzazione che la contraddistingue. Pertanto, anche quell’esperienza politica tragica e rovinosa ha attinto al management come risorsa teorica e pratica per organizzare il funzionamento del Reich, anche nelle sue imprese più criminali.  

 

Una prima riflessione che questa constatazione apre riguarda, parafrasando Arendt, la "banalità del management": lo stesso apparato di razionalità può davvero essere a servizio di qualunque progetto, anche il più disumano?  

 

Non è detto. Questa provocazione, infatti, aiuta a comprendere meglio il solco tra il management di matrice anglosassone – di cui parla l’autore e da cui deriva il New Public Management – e la tradizione dell’economia aziendale italiana (di cui abbiamo parlato anche qui), che postula alcuni principi di base dirimenti: le persone sono soggetti e non fattori produttivi, il fine dell’azienda (sia essa pubblica o privata) è la capacità di soddisfare i bisogni reali nella società e non la massimizzazione del profitto, che si limita ad essere condizione di economicità. Oggi la lezione sembra appresa anche dal management di matrice anglosassone che ha ‘corretto’ la sua storia con l’invenzione della sustainability e del purpose nel business, che – curiosamente – abbiamo salutato come una straordinaria novità, invece che come di un ritorno alle origini. 

 

In conclusione, a proposito di management e storia, nazismo o no, questo libro in qualche modo ricorda l’importanza di conoscere nel profondo le matrici culturali da cui arrivano i contributi che sfociano in quello che oggi chiamiamo management. A partire dall’economia aziendale.

SHARE SU