#ValorePubblico

Le politiche di prezzo del Museo Egizio e il rapporto tra politica e management

La polemica è vecchia di qualche anno ed è risorta all’improvviso, forse proprio perché riguarda un tema che appassiona sempre: il rapporto tra politica e management delle istituzioni pubbliche. Culturali, in questo caso.  I fatti risalgono al 2018, quando una nuova politica di promozione del Museo Egizio di Torino, guidato dall’egittologo Christian Greco, aveva indentificato nelle persone di lingua araba un nuovo target da sviluppare e per questo destinatario di agevolazioni sul prezzo del biglietto di ingresso. Una parte politica contestò questa misura considerandola discriminatoria. Quando recentemente un assessore regionale piemontese di una giunta di colore diverso da quella di cinque anni fa ha dichiarato che non riconfermerebbe Greco al suo posto, si è riaperto il dibattito.

Uno scambio interessante sul tema ho avuto il piacere di condividerlo con Alex Turrini, Professore Associato del Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche presso l'Università Bocconi,

che oltre ad essere un riferimento nella nostra Università per le politiche culturali e arts management da una prospettiva pubblica, ha diretto EMMAP e si è occupato di dirigenza pubblica. La conversazione è stata un’occasione per riflettere sul rapporto tra politica e management.

 

Per quanto non si discuta sulla necessità che alla guida delle politiche e dei servizi culturali vi siano professionisti solidi e legittimati dalla loro competenza, invece che dall’affiliazione politica, “le agenzie o fondazioni culturali (anche se relativamente autonome dal finanziamento pubblico come nel caso del Museo Egizio ndr) devono proattivamente cercare il dialogo con la politica perché i rappresentanti politici sono quelli delegati democraticamente dai cittadini” sostiene Turrini.

E che ne è, allora, della separazione tra politica e management?

“Non esiste una separazione tra politica e management che va bene una volta per tutte (come vuole il modello burocratico)”. Per Turrini questa relazione è dinamica e deve essere costruita dentro una cornice di costante “rapporto di ascolto e collaborazione”, con una forte e spiccata consapevolezza che la politica è legittimata dal consenso popolare ad esprime valori culturali che non possono essere ignorati. Non significa che bisogna farsi dettare la linea. Ma che occorre entrarci in dialogo. L’artista è giusto e sano che sia apertamente provocatore e il manager culturale è quindi chiamato ad assicuraree difendere le condizioni di quella libertà d’espressione, costruendo (e non bruciando) ponti con tutta la società e certamente anche con la politica, quale che sia.

A tal proposto, il mandato del direttore di una qualunque istituzione culturale non può mai prescindere dalla priorità di raggiungere nuovi pubblici, a partire da quelli sistematicamente tagliati fuori della fruizione di cultura, come le minoranze, gli stranieri di prima e seconda generazioni, ma più in generale gli abitanti delle periferie, le classi economicamente più fragili, le persone con più bassi livelli di istruzione.

Sei d’accordo che occorra rivolgersi anche a loro?

“Un approccio customer-oriented e di coltivazione dei diversi pubblici deve essere applicato per i visitatori tanto quanto per i politici che spesso rappresentano alcuni di quei non visitatori che hai citato e la fetta della popolazione che meno usufruisce dei servizi culturali. Questo è un lavoro faticosissimo, ma distintivo del dirigente pubblico.” Un lavoro che Christian Greco sembra saper fare con competenza, se i vertici politici locali, pur di schieramenti opposti, ne hanno preso le difese.

Ma il pubblico nei servizi culturali non può essere ridotto a mero consumatore. Né la politica a “cliente” del manager pubblico.

Come si presidia questa relazione così complessa, soprattutto in ambito culturale, dove il tema dei valori collettivi è il cuore di tutto?

Da un lato, ricordarsi che i fruitori di cultura sono anche consumatori ci obbliga ad avere presente che il loro punto di vista nell’esperienza di fruizione conta. Dall’altro, pensare che siano solo consumatori reifica la produzione culturale che non esiste solo per essere consumata, ma per veicolare un messaggio che talvolta può essere spiazzante, disturbante, scomodo. Così come può essere pericoloso considerare la politica alla stregua di cliente che ha sempre ragione: solo nei regimi totalitari i messaggi artistici o culturali sono controllati dalla politica. Dove comincia e finisce, allora, l’autonomia del management verso la politica nelle istituzioni culturali? È ovvio che gli assetti di governance, l’autonomia finanziaria e i successi commerciali di un’istituzione legittimano e rafforzano l’autonomia gestionale. Ma non bastano. Anche in questo caso, occorre ricordarsi che quando è in gioco l’interesse pubblico i piani di legittimazione sono diversi, tutti necessari e si intrecciano.

“Insomma – conclude Turrini – la risposta alla tua domanda sta nello sviluppo di competenze direzionali specifiche e una progettazione attenta dei checks and balance nella governance delle istituzioni culturali in modo da incentivare la produzione di una sintesi che tenga in equilibrio la “tecnica” culturale, il mercato e anche la politica. Missione difficile ma non impossibile.”

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