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La storia infinita dell’accesso alla dirigenza

La scorsa settimana il DL 25/2025, meglio noto come “Decreto PA”, è stato convertito in legge. Tra le misure previse anche l’ennesima riforma dell’accesso alla dirigenza. Come farne un’opportunità per gli enti?

 

C’è una legge (più precisamente un Decreto Legislativo) che gli addetti ai lavori chiamano con tono familiare “il 165 del 2001” e che per tutti gli altri è il testo unico dell’impiego pubblico. Questo corpo di norme disciplina, all’art. 28, l’accesso alla dirigenza. In oltre 25 anni dalla sua emanazione, il suddetto articolo 28 è diventato sempre più lungo. Per chi in questi 25 anni ne ha seguito l’evoluzione, rileggerlo è come guardare la sezione di una roccia per un geologo: ogni comma aggiunto o eliminato, ogni periodo riformulato o integrato in un patchwork di -bis e -ter ha la firma di una certa stagione di riforma, frutto più delle stratificazioni delle idee e sensibilità in evoluzione nel tempo, che delle diverse maggioranze che li hanno promulgati. Ma il fatto che il dibattito politico non si sia scatenato sul tema è voluto anche dire che talvolta il dibattito tout-court è stato un po’ asfittico, al netto di sporadici momenti di confronto organizzati in genere dai portatori di interesse (le associazioni di rappresentanza della dirigenza) e isolate tracce di opinioni a confronto su quotidiani e riviste specializzate. Per questa ragione, oggi abbiamo un ordinamento che – prevedendo nei diversi strati tutto e il contrario di tutto – consente alle amministrazioni ampi spazi di libertà per scegliere come disegnare le politiche di accesso alla dirigenza. Ma,

in assenza di un quadro concettuale logico condiviso che alimenti la consapevolezza di queste decisioni, tale margine di libertà è sovente percepito dagli enti (che le norme le devono applicare) come una minaccia.

Tanto più in un contesto in cui la funzione HR nelle nostre amministrazioni è storicamente debole, anche a causa della pratica della rotazione che – invece di essere giocata tra amministrazioni – despecializza e disperde competenze nel tempo.

 

Per provare a costruire una mappa sintetica della storia dell’art. 28, si potrebbe partire enucleando la compresenza di due grandi visioni alternative sull’accesso alla dirigenza.

 

Nel primo caso la dirigenza è un corpo dello stato autonomo e separato dal resto del personale, per prerogative e funzioni, al punto da essere una carriera a sé. Questo modello guarda ad un idealizzato (e poco conosciuto) modello francese della dirigenza pubblica che trascende i confini delle singole amministrazioni, cui si accede all’inizio della propria vita professionale, come fosse una delle tante carriere pubbliche non contrattualizzate, come per i prefetti, magistrati, diplomatici. È coerente con questo modello l’idea che l’accesso sia centralizzato – per via del corso concorso della SNA o del concorso unico del dipartimento della funzione pubblica – ma anche con istituti che oggi non ci sono, come il ruolo unico e un sistema articolato di progressioni di carriera all’interno del ruolo dirigenziale, oggi inconsistente, se non per le due discutibili fasce.

 

Nell’altra visione, la dirigenza è una funzione di gestione riservata a chi ha maturato le competenze – e, quindi, le esperienze – necessarie a svolgerla. Pertanto, secondo questa prospettiva la dirigenza non è una carriera autonoma, ma o è un punto di approdo nella carriera dei più brillanti funzionari, oppure – in via del tutto complementare – uno strumento per approvvigionarsi pro tempore di quelle competenze gestionali scarse nel mercato interno di cui vi è una necessità contingente (es. se serve istituire una nuova direzione su un tema innovativo, è possibile che le competenze non siano rinvenibili all’interno della PA nei tempi utili). Questa seconda visione della dirigenza è più coerente con le diverse procedure presenti nell’ordinamento volte a valorizzare le competenze interne (incluse le norme introdotte dal DL 25/2025), oltre che con l’istituto della dirigenza a contratto: eppure, nella pratica, la dirigenza a contratto è paradossalmente l’istituto più diffuso per valorizzare gli interni, in luogo di procedure più appropriate per quanto presenti nell’ordinamento già da qualche anno.

 

I detrattori della dirigenza come carriera contestano a quel modello la sottovalutazione della componente dell’esperienza, che non può essere acquisita sui banchi di scuola. Del corso concorso criticano il rischio di vedere diventare dirigenti giovani neo-laureati con esperienza professionale inesistente e della logica dei concorsi unici che a vincere siano quelli con più tempo per mandare a memoria informazioni irrilevanti o quasi per la pratica dirigenziali (e quindi meno impegnati a lavorare).

I detrattori dei concorsi per gli interni paventano il rischio di minore terzietà delle procedure o, più in generale, del perpetrarsi di bias di selezione che tendono a fare emergere chi è già in qualche modo emerso.

Ora, mi sento di poter affermare che il nostro ordinamento ha trovato rimedi per rispondere alle critiche su entrambi i fronti.

Il corso-concorso della SNA (che resta nei fatti l’unico vero ragionevole concorso unico da preservare nel nostro ordinamento, con la riserva del 50% dei posti) è stato ampiamente riformato: da un lato, i nuovi criteri di accesso valorizzano l’esperienza dei funzionari o richiedono titoli che prevedono una maggiore seniority professionale; dall’altro, l’introduzione di prove volte a valutare anche le competenze manageriali e le attitudini individuali riducono il rischio di far accedere alla dirigenza sapientini del tutto inadatti al ruolo.

D’altra parte, le norme più recenti, non solo il recentissimo DL 25/2025, ma già il DL 80 del 2021 e seguenti, vanno nel senso di coniugare la valorizzazione dell’esperienza dei funzionari con procedure trasparenti e terze volte ad evitare logiche claniche nella gestione dell’accesso alla dirigenza, grazie anche ad una pluralità (forse anche pleonastica) di soggetti e commissioni coinvolte. Inoltre, questa via dovrebbe assicurare di ricondurre l’istituto della dirigenza a contratto (19 comma 6) alla funzione per cui è stata introdotta nell’ordinamento, invece di essere – come oggi – uno strumento di promozione sul campo

 

Ecco perché oggi possiamo dire che

per gestire l’accesso alla dirigenza abbiamo tutta la gamma delle possibilità, integrate con le correzioni di volta in volta richieste, frutto delle critiche via via prese in esame.

E allora? Cosa manca?

Non le norme, di sicuro. Il nostro ordinamento è oramai come la biblioteca di Babele di Borges: c’è già tutto quello che poteva essere scritto e anche il suo contrario. Ora occorre dirsi come le vogliamo usare. Ad esempio, in quali posizioni è più opportuno fare crescere la dirigenza interna e in quali valorizzare la dirigenza esterna o inter-ruolo? Il diverso canale con cui si è avuto accesso alla dirigenza può anche ispirare (più che condizionare) diverse traiettorie di carriera? Ad esempio, possiamo aspettarci che alcune funzioni di supporto o strumentali (penso ad HR, IT, acquisti, ma anche a quelle di maggiore raccordo inter-ministeriale, come le funzioni legislative,…) possano diventare le posizioni dove fare ruotare e fare crescere in via prevalente la dirigenza inter-ruolo, per assicurare allo stesso tempo specializzazione trasversale e valorizzare la maggiore agilità a muoversi oltre i confini di ente? E, allo stesso tempo, vogliamo riservare le posizioni dirigenziali di line ai dirigenti interni, per farli consolidare come esperti di una data area di policy? Se così fosse, i candidati alla dirigenza saprebbero a quale procedura candidarsi, in vista di una certa prospettiva o di un’altra.

Questa non è che una delle possibili proposte che sorgono se si smette di portare lo sguardo solo all’accesso e se si comincia anche a pensare che

la dirigenza non deve solo gestire: deve anche essere gestita, con criterio e coerenza.

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