#ValorePubblico

La casa pubblica come servizio che crea inclusione

Venerdì 17 maggio sono presentati gli esiti del rapporto finale di una ricerca realizzata congiuntamente da SDA Bocconi e dal DAStU del Politecnico di Milano, all’incrocio di due discipline, il management pubblico e gli studi urbani, finanziata tramite un bando della Fondazione Cariplo dedicato a studiare (e trovare soluzioni per ridurre) le diseguaglianze sociali in Lombardia che, nel nostro progetto, abbiamo declinato nell’ambito dell’housing pubblico a Milano. Questo rapporto è diventato un libro, curato con Massimo Bricocoli, Direttore del DAStU, ed Eleonora Perobelli di SDA Bocconi e dove si trovano contributi di tutto il team di ricerca: Vittoria Baglieri, Emanuele Belotti, Marco Peverini e Constanze Wolfgring.

 

 

L’edilizia residenziale pubblica conta circa 750.000 alloggi a livello nazionale di cui circa 59.000 solo nella città di Milano: un patrimonio importante, eredità di un passato in cui la casa di proprietà pubblica era una parte consistente della risposta ad un fabbisogno abitativo che non trovava risposta nel mercato. E oggi?

 

Oggi i quartieri ERP si distinguono quali luoghi di concentrazione di forme diverse di fragilità economica e non solo, sovente di conflitto e dove si tendono a riprodurre vecchie diseguaglianze e a crearne di nuove. In più, le strategie di valorizzazione si sono spesso risolte in operazioni di dismissione, concependo la creazione di valore nella sua unica dimensione finanziaria (fare cassa, per altro con esiti modesti) invece di produrre inclusione. Con questa ricerca ci siamo chiesti: c’è un altro modo? Possiamo immaginare che la gestione di questo patrimonio possa essere fatta in modo da generare un valore, inteso come valore pubblico e – quindi – capace di combinare sostenibilità economica con capacità di produrre inclusione sociale e ridurre le diseguaglianze?

 

Per rispondere a questa domanda abbiamo seguito tre piste: conoscere meglio il profilo di utenza delle case popolari e la sua evoluzione nel tempo, sotto un profilo quantitativo, grazie alla dei dati ALER Milano; studiare le misure alternative all’offerta di casa pubblica messe in campo dalle politiche pubbliche per rispondere al bisogno abitativo; investigare nell’esperienza di inquilini ed operatori in che modo la casa pubblica costituisce un elemento di creazione di valore, individuale e collettivo.

 

Incrociando gli esiti delle tre piste di ricerca, siamo giunti a tre conclusioni.

La prima è che la casa pubblica rischia di diventare un resto archeologico di politiche abitative del passato.

Da un lato, le misure messe in campo per rispondere ai bisogni abitativi tendono a privilegiare più le misure per sostenere l’accesso all’acquisto o, con riferimento agli affitti, a sostenere la domanda con forme di contributi al reddito, invece di forme di regolazione dei canoni, che continuano a crescere (come anche rilevato dal Rapporto OCA 2023 del DAStu). La casa pubblica non è più uno strumento di risposta attiva: il patrimonio pubblico ha smesso di crescere (sia per nuove costruzioni, sia per acquisizioni) e ci si limita a gestire quello che c’è.

Dall’alto, che si tratti di una politica del passato è evidente dal profilo dell’utenza degli oltre 90.000 inquilini: i nuclei familiari sono per il 40% composti da persone sole, in larga misura persone anziane e, infatti, nel quasi 50% dei nuclei che abitano nelle case pubbliche l’intestatario dell’affitto è un pensionato. Si tratta di famiglie che hanno avuto accesso alla casa pubblica in un tempo passato, quando si aprivano nuove opportunità legate a nuove costruzioni, e lì sono rimaste, spesso anche attraverso le generazioni. Pertanto, per fare fronte ai nuovi fabbisogni abitativi – di cui sono portatori tipicamente i nuovi arrivati, sia da altre regioni italiane, sia da fuori dai confini nazionali – resta il poco turnover a diposizione. Questi alloggi sono distribuiti tra chi mostra forme di disagio economico più grave. Oggi si osserva la presenza di un nuovo gruppo di inquilini più giovani, di origine straniera (20% sul totale), se non sono disoccupati hanno un reddito di circa la metà più basso degli inquilini italiani e per il 50% sono nuclei di almeno 4 persone.  In sostanza, giovani e persone con background migratorio (categorie spesso coincidenti) rischiano di essere la fascia di popolazione più schiacciata da un’articolazione di politiche spesso rivolta alla società di ieri.

La seconda è che la casa pubblica produce (e distrugge) valore in forme diverse e spesso sottovalutate.

Dall’ascolto della voce del centinaio di inquilini intervistati nei loro cortili, emerge che la casa pubblica svolge oggi la stessa funzione di protezione sociale di altri strumenti di previdenza. Una missione molto diversa da quella di ieri, delle case degli operai o dei lavoratori in arrivo da altrove, dove la casa sosteneva una condizione di fisiologia, non era rimedio (per altro inadeguato, da solo) a condizioni di estrema fragilità. Che questo patrimonio sia a Milano, ovvero a ridosso del centro di una delle città più ricche e dinamiche del continente, consente a questo frammento di popolazione cittadina di prendere parte, per quanto in proporzioni molto diverse in base ai profili, alla vitalità della città, avendo accesso ai servizi scolastici, sanitari, sociali, di trasporto di eccellenza su scala europea. 

Ma insieme al valore generato, non mancano evidenze di valore perduto. Il patrimonio pubblico, infatti, produce anche conflitto e rabbia sociale. Essere in un luogo dove non si vorrebbe stare, ma senza avere alcuna possibilità di andare altrove, vedere il quartiere, il cortile, il condominio diventare anno dopo anno un posto sempre meno ospitale, meno sicuro, dove le istituzioni non riescono più a fare rispettare le regole alla base dell’abitare comune, sono elementi che rendono l’esperienza abitativa difficile. Il valore nelle case pubbliche si brucia quando è violato il patto abitativo che lega tra loro inquilini e inquilini e istituzioni, azienda di gestione per prima, ma non solo. Il patto si rompe quando nessuna delle parti ha più la forza (o le competenze) per fare rispettare le regole contrattuali e sociali che legano una comunità che abita gli stessi spazi e che consentono di conservare un senso di equità e rispetto.

La terza è che la creazione di valore per gli inquilini dipende dal modello di gestione del servizio abitativo.

L’aspetto che più di ogni altra cosa filtra e orienta l’esperienza abitativa degli inquilini è la presenza di figure di presidio, che consentono loro di essere visti, riconosciuti nei propri bisogni, ascoltati, anche quando si avanzano richieste impossibili, cui non si può che rispondere di no. Quello che abbiamo trovato è che a fare la differenza è prima di tutto la presenza di un semplice custode, che si occupa di prendersi cura dello spazio comune, che legge la posta a chi non è in grado di farlo, che interviene per le piccole manutenzioni quotidiane, che funge da figura di riferimento stabile. Laddove, insieme al custode, vi sono anche forme di accompagnamento all’abitare (come nel caso dei Community Manager), si dirada il senso di trappola e si affaccia un qualche orgoglio di appartenenza ad un modo di abitare. Il lavoro di costruzione di un’alleanza di servizio tra il gestore e gli inquilini, che sorge all’inizio della storia abitativa, consente agli abitanti di appropriarsi di un’idea di abitare ricca, consapevole, difesa e promossa con i nuovi inquilini.

In conclusione, cosa vuol dire oggi gestire questo patrimonio in un modo orientato alla creazione di valore?

Prendersi cura degli immobili e sottrarli al degrado è una condizione necessaria, ma certo non sufficiente: investire sul servizio abitativo in chiave strategica significa focalizzare l’attenzione sulle specificità dei profili degli inquilini per come sono oggi e saranno domani, anticiparne i bisogni, costruire risposte integrate con altri servizi pubblici, consapevoli che il presidio di questi luoghi alleggerisce la filiera del welfare altrove. Per farlo, occorre immaginare che gestione tecnica, amministrativa e sociale siano riconciliate, ricondotte ad una pratica integrate, gestita nel punto più prossimo all’abitare che il sistema consente, attraverso la valorizzazione di figure che possano accompagnare l’esperienza di abitare sociale. 

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