
- Data inizio
- Durata
- Formato
- Lingua
- 15 set 2025
- 2 giorni
- Blended
- Italiano
Acquisire le competenze per guidare percorsi di innovazione capaci di generare impatto con attenzione al ‘valore pubblico’.
Recentemente ho avuto alcune conversazioni interessanti attorno ad un tema più controverso di quanto sembri: come rendere più facile l’ingresso dei giovani nella PA? Ringrazio in anticipo Chiara Severgnini di Snack News di Corriere TV e Giulia Di Donato e Diletta Di Marco di Officine Italia per il confronto che ha ispirato queste riflessioni.
Lo si è detto e scritto anche sulla carta dei cioccolatini: il processo di senescenza del pubblico impiego è sconsolante. Stando ai dati del conto annuale, in meno di dieci anni l’età media è aumentata di 8 anni nelle funzioni centrali e di 7 in quelle locali, per arrivare un po’ ovunque a sfondare i 50 anni. Negli stessi anni, l’età media di tutti gli occupati è aumentata di soli due anni (da 43 a 45 anni, stando ai dati Istat). In altre parole, è l’Italia che invecchia, ma la sua pubblica amministrazione è in preda ad una ben più grave forma di avvizzimento. Intanto, la disoccupazione giovanile resta tra le più alte d’Europa e così, in perfetto stile garbage can, aprire ai giovani le nuove importanti opportunità di ingresso nella PA sembra la classica occasione arrivata a risolvere più di un problema. Eppure, la vicenda è un po’ più complicata di così. La PA non è solo vecchia, è anche poco qualificata: i laureati nei ministeri non arrivano al 30% e negli enti locali poco sopra. Un dato incomprensibile se si pensa che la maggior parte dei servizi sono stati esternalizzati (si pensi ai trasporti) e che alla PA si chiede sempre più di fare da regista e regolatore, piuttosto che produzione diretta. Per fare un paragone, in Banca d’Italia i laureati sono il 65%. Bene, pertanto, il programma PA 110 Lode che lavora per invertire la rotta. Bene anche - quando si parla di nuove assunzioni - non limitarsi a reclutare genericamente giovani: servono giovani laureati e qualificati. Prima ancora di capire come fare ad attrarli, occorre rivedere rapidamente i modelli organizzativi, i processi di lavoro e la programmazione delle competenze richieste: se coi nuovi concorsi ci si limiterà a sostituire i profili di chi è andato via, si continuerà a riprodurre una pubblica amministrazione novecentesca, di stampo industriale, ingiustificatamente ad alta intensità di lavoro scarsamente qualificato.
La PA non è solo vecchia, è anche poco qualificata: i laureati nei ministeri non arrivano al 30% e negli enti locali poco sopra.
Illustri osservatori hanno denunciato l’ingiustificato predominio dei giuristi tra i laureati nella PA. Melis, ad esempio, nella sua recente Storia della Pubblica Amministrazione spiega che non era così agli albori ottocenteschi della nostra burocrazia: architetti, ingegneri, ma anche matematici e altri profili popolavano numerosi gli uffici studi – scomparsi – dei nostri ministeri. È un fenomeno successivo (che risale ai primi del ‘900) quello della colonizzazione dei giuristi. E da lì in poi la norma è diventata l’alfa e l’omega della vita amministrativa: che sia un decreto o una circolare, da allora si fatica a vedere che fare politiche pubbliche è qualcosa di più. E ormai la pubblica amministrazione è diventata uno degli sbocchi stabili di un percorso di laurea, quello in giurisprudenza, forse anche per la crisi delle professioni legali. Quello che sorprende, a sentire le storie dei tanti laureati in legge entrati negli ultimi anni nella PA, è che in pochi sognavano il lavoro che si trovano a fare. La storia tipo è di chi vuole diventare magistrato e mentre prepara quel concorso ne vince un altro, scelto un po’ a caso, senza nemmeno conoscere l’amministrazione di destinazione. Se ci mettessimo a contarli, scopriremmo che un po’ ovunque la nostra PA è piena di magistrati mancati. Ecco, se l’ingresso nei ruoli contrattualizzati del pubblico impiego è percepito come un ripiego non è certo un grande incipit. D’altra parte, il magistrato, la dottoressa, il poliziotto, l’insegnante sono i nomi che usano i bambini quando da piccoli dicono, senza saperlo, che desiderano lavorare nella PA. Il sogno di un mestiere ha il volto di una persona. Quando si comincia a tentare concorsi generalisti a caso vuol dire che si è barattato il sogno di un mestiere, di una carriera, con la promessa del posto fisso.
La storia tipo è di chi vuole diventare magistrato e mentre prepara quel concorso ne vince un altro, scelto un po’ a caso, senza nemmeno conoscere l’amministrazione di destinazione.
In conclusione, ci sono tre cose che si possono fare – tra le molte – per rendere la PA più interessante per giovani qualificati e desiderosi non tanto e non solo di risolvere una volta per tutte il problema del lavoro, ma di abbracciare una scelta professionale a servizio della comunità.
Col PIAO gli enti sono chiamati a formulare in maniera più chiara la loro strategia HR. L’evoluzione del tasso di laureati è un indicatore forse un po’ semplice, ma facile da rilevare, per misurare il ritmo con cui si qualifica il lavoro. E questo input non può che obbligare a ripensare e rinnovare i processi di lavoro, facendo sulle nuove tecnologie.
È evidente che si tratta di rinunciare alla comodità dei concorsoni. È altrettanto evidente che non si può rinunciare al futuro per la comodità nel presente. Piuttosto, si possono ricercare economie di scala in modalità aggregate di selezione per profili omogenei.
3. Restringere ai percorsi di studio dedicati a lavorare nella PA i concorsi da generalisti.
Se proprio un profilo generalista e fungibile ci serve anche per i profili dei laureati, occorre cominciare a lanciare (o a valorizzare gli esistenti) percorsi di studi finalizzati al lavoro nelle amministrazioni pubbliche, al fine – a tendere – di restringere a queste lauree l’accesso ai concorsi generalisti. Non si tratta solo di un vantaggio tattico legato alla riduzione delle candidature (che permetterebbe di qualificare i concorsi), ma permetterebbe anche di selezionare all’interno di un bacino di giovani che già durante il percorso di studi hanno deciso di lavorare a servizio della cosa pubblica. Chissà che, così facendo, nel tempo, tra i sogni dei ragazzi, oltre al poliziotto e alla maestra non comparirà anche il civil servant.