#ValorePubblico

Diario collettivo di due giorni di ricerca sul campo

Non è che le case popolari da strumento di integrazione e mobilità sociale sono diventate, talvolta, vettore di esclusione ed emarginazione? Se così è, com’è successo? E cosa può aiutare questo servizio a generare valore pubblico?

 

È più o meno questa la domanda di ricerca di un progetto in corso promosso da SDA Bocconi e DASTU, Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, grazie al finanziamento della Fondazione Cariplo, nell’ambito del bando Inequalites Research, 2022.

 

Dopo una prima fase di analisi della letteratura, studio delle misure di policy, raccolta dei dati quantitativi sul profilo dell’utenza e del patrimonio, questa settimana è cominciata la rilevazione sul campo, fatta di interviste agli abitanti di due quartieri, direttamente nei loro cortili e, qualche volta, nelle loro case. L’urgenza di confrontarci su quanto stiamo ascoltando e imparando, intervista dopo intervista, ha preso forma in una chat con tutto il gruppo di ricercatori coinvolti (Emanuele Belotti, Massimo Bricocoli, Marco Peverini e Constanze Wolfgring per il DASTU e Maria Cucciniello, Vittoria Baglieri, Eleonora Perobelli e la sottoscritta, per SDA Bocconi). Di seguito alcune tracce di questa conversazione.

 

“La persona che abbiamo intervistato oggi ha sempre abitato nelle case popolari. Ci è nato lui e ci è nato suo padre. Suo nonno ci arrivò bambino, coi suoi genitori, arrivati a Milano dalla Calabria. Dice che è cambiato tutto quando hanno cominciato con le politiche di mobilità, che hanno sfaldato i legami sociali che si erano intessuti per tre quarti di secolo. Le figure di intermediazione con la proprietà (pubblica), come il portiere, sono sparite. E le istituzioni si sono fatte più lontane. Secondo lui la causa di tutto è in quello che noi chiamiamo il processo di aziendalizzazione. Ma siamo sicuri sia da cercarsi solo all’interno delle forme di gestione del patrimonio la crisi cui stiamo assistendo?

Le forme di marginalità sociale che si possono incontrare oggi nei quartieri popolari ieri non c’erano, perché non esistevano, o erano altrove, e non lì? O, semplicemente, sono state rimosse dalla memoria collettiva?”

“Fino al 1998 (e ancor di più fino al ‘78), grazie agli affitti controllati tanti che potremmo definire poveri riuscivano a vivere in abitazioni in affitto privato. La deregolamentazione progressiva degli affitti ha creato una grande ondata di sfratti, che ha assorbito quasi completamente le disponibilità dell’edilizia pubblica.”

 

“In più, uno stock consistente di alloggi privati che prima ospitavano fasce popolari sono stati gentrificati (ad esempio via Salasco, vicino a Bocconi, fino a fine anni 80 era una via popolare) e questo ha ulteriormente sottratto un pezzo di offerta di mercato “abbordabile”  e, quindi, ha aumentato le diseguaglianze economiche.”

 

“Anche io sono convinta che un pezzo del problema sia nel sistema di offerta. Ma quello che stiamo osservando ci suggerisce di guardare anche a come è evoluto il profilo del bisogno. Che mi pare andare oltre le forme di gestione del patrimonio pubblico o le evoluzioni del mercato immobiliare privato.”

“Certo, alcune trasformazioni sociali hanno impattato radicalmente sulla povertà abitativa: non solo la precarizzazione del mercato del lavoro, ma anche la deflagrazione della famiglia.

Discutendo in una lezione sull'ultrapophousing (edilizia pubblica ultra popolare) di inizio Novecento abbiamo realizzato che questo patrimonio fu realizzato attorno ad una concezione tradizionale della famiglia, perché fino agli anni ’70, quella era l’unica configurazione sociale possibile. Le tre signore che ho intervistato erano in affitto in alloggi privati, che non hanno più potuto permettersi dopo le separazioni dai loro (terribili) mariti. E poi le migrazioni internazionali, che si sono aggiunte, senza sostituire, quelle dal Sud Italia. 200.000 studenti universitari a Milano, di cui una buona proporzione di fuori sede aumentata incredibilmente in questi ultimi anni, sono una nuova categoria di ‘migranti’. Eppure lo stock pubblico di oggi è lo stesso di allora, anzi si è ridotto. E migliaia di alloggi (molto piccoli, dovreste vedere da vicino la massa di bilocali privati minuscoli e tristi costruiti negli anni 60-70 per famiglie) oggi sono le case dei molti single milanesi (più del 50% dei nuclei a Milano sono composti da una sola persona).

Un gran numero di più o meno giovani precari del terziario più vario, ad esempio il personale del retail, lavorano a Milano, ma poi poi vivono altrove: i cui canoni (in assenza di regolazione, che prima invece garantiva maggiormente) aumentano ogni anno con contratti annuali e turn over al rialzo. (Su questo è in uscita il Primo Rapporto OCA del DASTU, presentato il 7 Novembre prossimo, ndr)”

 

“La cosa interessante è che a Vienna stanno nuovamente puntando su case piccole ed economiche (con il nome molto più contemporaneo di "smart housing") per rispondere ai nuclei che non riescono a entrare nelle cooperative, che sono uno dei due modelli principali di offerta abitativa popolare lì (accanto all’edilizia strettamente pubblica). Per dirla con Antonio Tosi, è il segno che

dopo decenni in cui le politiche si sono concentrate sul miglioramento degli standard (dimensionali, qualitativi, energetici, etc..) ora si torna a pensare alle soglie di accesso”

“E forse si sta anche riscoprendo la dimensione del servizio: non stupisce che qui si stia puntando nuovamente su figure di intermediazione tra proprietà e inquilini, che sembravano cadute in disgrazia, come il custode. Oggi il ruolo dei Community Manager (di cui si è raccontato qui), soprattutto dove il custode non c’è, può essere un tentativo di ricucire una relazione che consente non solo di migliorare l’esperienza abitativa. Ma di identificare e favorire la presa in carico di situazioni di fragilità importante.”

 

ps: I riferimenti alle interviste sono stati modificati per non rendere riconducibili a biorgafie specifiche le storie raccolte

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