Sotto la lente

Imprese familiari: non è un Paese per giovani

La XIII edizione dell’Osservatorio AUB – sostenuto dall’Associazione Italiana delle Aziende Familiari (AIDAF), dalla Bocconi, dalla Fondazione Angelini e da UniCredit – su tutte le imprese familiari italiane con ricavi superiori a 20 milioni di euro ha mostrato un dato interessante e allarmante: meno di un terzo delle imprese familiari ha almeno un o una componente del Consiglio di Amministrazione (CdA) di età inferiore a 40 anni. Tale percentuale era pari a quasi il 50 per cento nel 2010: in 10 anni, quindi, la presenza di imprese con almeno un o una consigliere giovane si è quasi dimezzata. E sempre dal 2010 al 2020 la percentuale di leader aziendali con età inferiore a 40 anni si è ridotta dal 16,9 per cento al 8,7 per cento. Se ricordiamo che le imprese familiari rappresentano circa il 65 per cento del totale della popolazione delle imprese italiane con ricavi superiori a 20 milioni di euro, i dati citati segnalano la fatica del sistema delle imprese familiari a coinvolgere persone giovani negli organi di governo e nelle posizioni di vertice.

Perché si tratta di dati allarmanti? Qualcuno sostiene che la varietà anagrafica non sia un tema rilevante. Potrei allora citare dati di ricerche che dimostrano una relazione positiva tra diversity nel CdA e risultati aziendali. Potrei anche citare dati dello stesso Osservatorio AUB che dimostrano una relazione negativa tra anzianità dei leader e dei consiglieri e risultati aziendali. Ma in questa sede preferisco suggerire qualche motivo semplice ed evidente che a mio avviso rende importante contrastare il fenomeno della progressiva riduzione della presenza di giovani all’interno dei CdA. Le imprese di quasi tutti i settori sono oggi immerse in contesti competitivi molto dinamici e con un impatto crescente della tecnologia. In primo luogo, sembra quasi scontato sostenere che una persona di 30-35 anni possa dare un contributo importante nel mettere a punto strategie e azioni per vincere il confronto in tali contesti. La seconda e semplice ragione si evince da una domanda: se non si inserisce nei CdA anche una certa varietà anagrafica come si riuscirà a governare i processi di successione legati al naturale invecchiamento delle persone? Una terza ragione è che l’inserimento di una persona giovane nell’organo di massima responsabilità di una azienda può avere un effetto motivante positivo su tutti i giovani che lavorano in tale azienda. Mi pare, in definitiva, che vi sia più di qualche valido motivo per promuovere la partecipazione di giovani consiglieri all’interno dei CdA.

Non ritengo invece che l’aumento della presenza di giovani all’interno dei CdA possa portare qualche svantaggio. Avendone parlato con vari imprenditori qualcuno mi segnala che in alcune realtà non vi sono ancora giovani della famiglia disposti a subentrare ai genitori. In questi casi, si potrebbe far ricorso alla selezione di giovani non familiari che possano dare un contributo di rilievo su tematiche strategiche per l’azienda. Qualche altro imprenditore mi segnala che l’ingresso di un giovane imporrebbe di rinunciare alla esperienza di un componente più senior. La risposta mi pare semplice: nulla vieta di aumentare il numero dei consiglieri consentendo così di mantenere le esperienze esistenti e aggiungendo quelle portate dai giovani. E dove per qualche motivo non si potesse aumentare il numero dei consiglieri, si potrebbe godere dell’esperienza di un consigliere senior attraverso altre forme di coinvolgimento quali, per esempio, advisory board, comitati strategici o altro.

Se quindi si concordasse sulla necessità di aumentare il numero di giovani consiglieri all’interno dei CdA, si tratterebbe poi di capire come procedere concretamente.

Credo che l’esperienza della legge Golfo-Mosca del 2011 possa essere di qualche utilità. Come noto, la legge impone una quota minima di genere negli organi di governo delle società quotate. La legge ha contribuito ad aumentare il numero di imprese con una presenza femminile nei CdA delle società quotate. Nel 2011 il 62 per cento delle imprese familiari quotate aveva almeno una donna all’interno del CdA; tale percentuale salì all’81 per cento nel 2020. Rispetto alla presenza di donne nei CdA, la situazione attuale dei giovani nei CdA è meno positiva: nel 2020 solo il 32 per cento delle società familiari quotate aveva un CdA con almeno un consigliere (uomo o donna) di età inferiore a 40 anni. Per questo, ritengo che sia necessario, ancor più che per il tema del genere, un intervento normativo. Conosco e in parte condivido la preferenza degli imprenditori per politiche di autoregolamentazione, ma credo che il gap da colmare sia talmente ampio che solo un intervento normativo possa consentire di ridurlo in tempi ragionevolmente brevi. Ritengo inoltre che questa emergenza riguardi non solo le società quotate, ma tutte le imprese familiari e quindi la legge dovrebbe riguardare non solo le prime, ma tutte quelle almeno sopra una certa dimensione.

Dal punto di vista dei policy maker, certamente ci sono oggi problemi più urgenti da affrontare, ma un intervento normativo come quello proposto ben si inserirebbe nell’ambito del programma che porta il nome Next Gen EU, proprio per enfatizzare che si dovrebbero porre in atto politiche a favore dei e delle giovani.

L’intervento normativo dovrebbe poi essere accompagnato da uno sforzo delle associazioni di imprenditori per promuovere una cultura del buon governo delle imprese che aiuti le famiglie imprenditoriali a cogliere tutti i vantaggi di CdA ben organizzati, e che siano realmente i responsabili dell’indirizzo e del controllo della strategia delle imprese.

SHARE SU