Sotto la lente

G come Governance

Pochi temi di management hanno generato un dibattito tanto intenso quanto repentino come quelli legati alla sostenibilità aziendale, e in generale ai criteri ESG cui ogni azienda sembrerebbe doversi ispirare per potersi ritenere «moderna». Considerato fino a pochi anni fa un tema per addetti ai lavori, l’acronimo ESG nasce per indicare tre insiemi di criteri, rispettivamente ambientali (la «E» di environment), sociali e di governance, per indirizzare le scelte di investimento di attori istituzionali (fondi previdenziali, fondi sovrani e altre categorie di investitori) verso imprese con particolare attenzione a fattori quali le politiche ambientali, quelle sociali, nonché l’assetto di corporate governance e le prassi etiche seguite dalla società. L’obiettivo dichiarato era quello di orientare scelte di investimento verso il lungo periodo, tentando di cogliere l’impatto economico di fattori non esclusivamente di business, nonché premiando modelli strategici emergenti e innovativi.

 

La storia recente racconta però un’evoluzione in parte diversa, con l’acronimo ESG divenuto sinonimo di sostenibilità, di strategia aziendale, di valori di un’impresa, se non addirittura della sua stessa vision. Ciò ha avuto e avrà indubbi vantaggi; primo tra tutti, va riconosciuto il merito di aver facilitato l’evoluzione del concetto di «corporate social responsibility» verso quello di «corporate sustainability», abbandonando fortunatamente l’idea che la responsabilità sociale fosse una delle varie opzioni di giveback, se non addirittura – nei casi peggiori – di greenwashing. Correlato a questo merito, anche quello di aver spostato il piano della discussione dal marketing e comunicazione al livello direzionale, con evidenti, progressive e crescenti ricadute su un insieme di scelte e di processi aziendali che altrimenti avrebbero impiegato decenni a mutare. Allo stesso tempo, come tutte le evoluzioni un po' repentine e anche fin troppo alimentate a livello social e mediatico, si rischia oggi di confondere il criterio con l’oggetto, il mezzo con il fine, nonché di dimenticare qualche parte dell’equazione ESG.

 

A questo proposito vorrei soffermarmi su due aspetti. Il primo è che la sostenibilità aziendale rappresenta un concetto ben più ampio dei criteri che la misurano, e può essere sintetizzata nell’idea di sviluppo sostenibile, divenuta particolarmente esplicita con l’agenda 2030 delle Nazioni Unite (e gli ormai noti 17 SDGs-Sustainable Develpment Goals). Da questo punto di vista, sorprende il clamore generato dalla posizione del Comitato di Corporate Governance di Borsa Italiana, il quale nell’edizione 2020 del Codice ha esplicitamente indicato il «successo sostenibile» quale obiettivo-guida per il Consiglio di Amministrazione, in luogo della tradizionale creazione di valore per gli azionisti. Che poi, da una certa prospettiva, potrebbero e dovrebbero in realtà essere del tutto allineati nel lungo termine. Il secondo aspetto che vorrei sottolineare riguarda invece il focus del dibattito in corso sui criteri ESG. Assumendo che si vogliano considerare le tre aree ambientali, sociali e di governance come quelle su cui riflettere prioritariamente quando ci si affaccia ai temi di sostenibilità, allora bisogna a mio avviso riportare la «G» al centro dell’equazione e del dibattito pubblico sul tema. Questo almeno per tre ordini di motivi.

 

Il primo è che la corporate governance può e deve essere il motore dell’impegno ambientale e sociale dell’impresa, così come può e deve essere il motore di una più profonda integrazione della sostenibilità nella strategia aziendale. Solo portando la sostenibilità all’interno della discussione del board, come in parte è avvenuto per obblighi di compliance con la DNF (Dichiarazione Non Finanziaria), si potrà sperare di avere ricadute permanenti nella strategia corporate e nell’assetto organizzativo delle imprese. Anzi, forse può essere l’occasione per riportare al centro anche il ruolo strategico del CdA, sempre più offuscato dal crescente peso della compliance, essa stessa alimentata dalla necessità di irrobustire e rendere indipendente la governance – forse fino all’eccesso.

 

Il secondo motivo è che la governance stessa deve essere sostenibile. Se si pensa alle molte imprese anche quotate senza un chiaro piano di successione dell’AD e dei manager chiave – per non parlare delle migliaia di imprese non quotate che faticano addirittura a parlare di successione – allora diventa del tutto chiara l’incapacità della governance di creare essa stessa le condizioni di sostenibilità futura, poggiandosi su di un equilibrio apparentemente stabile ma invece molto precario. E di esempi simili se ne potrebbero fare molti altri.

 

Infine, e collegato al punto precedente, la governance è forse la variabile chiave per consentire la diffusione di un approccio sostenibile tra le piccole e medie imprese, o in genere tra le imprese non quotate e non soggette dunque a obblighi regolamentari, pur essendo talvolta di considerevoli dimensioni. Per quanto è pur vero che in molti di questi casi sono le stesse filiere produttive ad agire come meccanismo di trasmissione delle buone pratiche di sostenibilità ambientale e sociale, perché richieste nei rapporti di fornitura soprattutto se verso clienti multinazionali, è anche altrettanto vero che questo meccanismo dimentica ancora una volta il ruolo profondo che la governance può avere per determinare un vero cambio di passo e di mentalità laddove la proprietà è ancora ben presente e attiva nelle scelte strategiche dell’impresa.

 

Ecco perché la «G» di Governance può essere oggi la chiave della sostenibilità, così come viceversa la sostenibilità può consentire di meglio focalizzare i limiti della governance di molte imprese che per troppo tempo l’hanno considerata un elemento più formale che sostanziale.

 

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