
- Data inizio
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- 5 mag 2025
- 6 giorni
- Class
- Italiano
Progettare strategie di marketing efficaci integrando l'approccio tradizionale e quello digital per valorizzare e personalizzare l'esperienza del cliente.
Il termine "re-brand" (da cui “re-branding”) è un neologismo, che si compone di due termini ben definiti: re e brand. Re è il prefisso dei normali verbi d'azione che significano "di nuovo" o "nuovamente", implicando che l'azione venga eseguita per una seconda volta. Su brand non ci soffermiamo, altrimenti non potrebbe bastare una intera enciclopedia Treccani.
Sono numerosissimi i casi di rebranding, o i casi che si possono effettivamente far ricadere all’interno di tale strategia. Sì, proprio strategia.
Occorre precisare che, sovente e in modo assolutamente limitante, si è “confinato” il re-branding al lifting o alle superficiali modifiche di alcuni elementi visuali, il più delle volte connesse alle graduali o incrementali modifiche della value proposition, trasferite attraverso strumenti o programmi di marketing o di social marketing, quali naturali e necessarie attività di branding connesse alle mutevoli condizioni di mercato. Forse queste ultime sarebbe più corretto chiamarle iniziative di marca finalizzate al refreshing. Attività fondamentali poiché tese a “manutenere” il valore di marca attraverso il continuo adattamento di strumenti che accrescano (detengano o garantiscano) i brand knowledge effect (awareness o associazioni) su cui la marca stessa ha sempre puntato. Esempi, tantissimi: Coca Cola, Shell giusto per citare i più noti che ne sono delle chiare evidenze. Sono brand questi ultimi il cui obiettivo è sempre stato di mantenere la propria rilevanza sul mercato e nella mente dei consumatori sebbene attraverso modifiche, adattamenti e migliorie anche di alcuni elementi identitari. Ma ciò non significa che abbiamo sviluppato un rebranding.
Il rebranding va inteso come una decisione strategica, spesso complessa e difficoltosa, in quanto una sfida rilevante per il branding, proprio perché, oltre a richiedere elevati e crescenti investimenti di marketing per poterla avviare e rendere operativa, costringe il management a ripensare a awareness, immagine, posizionamento o riposizionamento di marca e, quindi, agli effetti di lungo termine generati o generabili dal brand a livello di individual brand ma anche di corporate, company o family brand. Il rebranding così inteso, ha lo scopo di facilitare o dirimere la potenziale o effettiva “confusione” generata o generabile dal valore del brand nella mente dei consumatori. Di fatto, esso implica l’esigenza di indirizzare le scelte manageriali verso strategie volte a sviluppo, consolidamento o rinnovamento nel customer mindset delle associazioni presenti, da costruire o ricostruire, rendendolo un obiettivo particolarmente complesso che, al contempo, evidenzia l’elevato rischio connesso alla creazione di ulteriore o crescente confusione sia all’interno delle organizzazioni sia al loro esterno e, cioè, in dipendenti, mercato, consumatori e stakeholder. Proprio per questo, il rebranding, oltre a richiedere un particolare sforzo implementativo, in modo del tutto analogo a ciò che avviene attraverso il brand positioning, è un’attività che necessita di una chiara definizione degli obiettivi, ancorché di una pianificazione rispetto alle finalità perseguite così come l’individuazione delle modalità attraverso cui intraprenderlo e trasferirlo (Romagnoli, Mattiacci, 2017).
Nella letteratura di marketing e brand management, il processo di rebranding è stato descritto attraverso quattro fasi, distinte tra loro, ma necessarie affinchè il processo abbia luogo: riposizionamento, ridenominazione, ridisegno e rilancio (attraverso, più propriamente intese: esternalizzazione e comunicazione del nuovo brand).
Il processo di rebranding e lungo e irto di difficoltà.
Assegnare un valore al brand, nonché misurarne l'equity e il relativo effetto sulle performance aziendali è una delle sfide che da sempre accompagna (e incombe su!) accademici, professionisti e manager. I metodi generalmente utilizzati per valutare le performance del brand variano a seconda dell'approccio adottato dai vari autori (e attori): la forza nella prospettiva CBBE (Keller, Busacca, Ostillio, 2005), la personalità di marca (Aaker, 1997), la corporate reputation (Fombrun et al., 2000) e la corporate image attraverso tecniche qualitative (van Riel et al., 1998), a cui si aggiungono i metodi olistici e proprietari applicati dalle numerose società di branding e di valutazione.
Al di là delle inevitabili critiche che tutti o parte di essi accolgono, si può affermare che non esistano al momento studi sistematici che siano in grado di valutare l'impatto del rebranding, proprio perché quale progetto strategico, non si può semplicemente valutare se il cambio di brand name ne migliora riconoscimento e posizione di mercato e/o genera un aumento del valore azionario d'impresa poiché, ad esempio, secondo alcune recenti ricerche, proprio tali cambiamenti nel corporate-brand hanno provocato confusione o perdita di commitment e/o senso di alienzione in dipendenti e clienti (Edmondson, 2002).
Non confondere rebranding con refreshing, tutte le marche con equity necessitano di quest’ultimo, ma non necessariamente del rebranding. Attribuire la “giusta” collocazione al rebranding: è un progetto strategico, che richiede un processo, al termine del quale è necessario valutarne l’impatto e gli effetti, impiegando gli approcci di brand value, sempre necessari e quanto mai attuali.