La libellula

Realistici… realmente?

“La libellula” è un blog su natura e impresa, curato da Sylvie Goulard 

 

Quando si parla di transizione climatica e ambientale, sempre più spesso i leader politici e i dirigenti d’impresa invocano la necessità di essere “realistici”. È così che giustificano l’allentamento dei vincoli imposti dagli impegni ambientali. 

 

Secondo loro, non è “realistico” chiedere alle aziende di raccogliere grandi quantità di dati ESG per orientare le proprie azioni — da qui la marcia indietro del testo Omnibus. Non è “realistico” puntare a una transizione verso i veicoli elettrici entro il 2035 — da qui l’abbandono del divieto dei motori a combustione entro quella data. Non è “realistico” fissare l’obiettivo di “zero consumo netto di suolo” entro il 2050 — da qui la ritirata dei legislatori francesi. Non è “realistico” agire contro l’inquinamento da plastica in un mondo in cui le decisioni multilaterali richiedono l’unanimità — da qui il fallimento dei negoziati globali. Non è “realistico” passare a un’agricoltura rigenerativa, benché quella intensiva produca enormi esternalità negative. L’elenco potrebbe continuare. 

 

Naturalmente, il ritmo della decarbonizzazione e della transizione verso un mondo “nature-positive”, così come la loro fattibilità tecnica, sono parametri cruciali. Tutti possono comprendere che gli obiettivi debbano essere raggiungibili e che, inoltre, la trasformazione debba essere sostenuta nel tempo da incentivi o misure sociali, per offrire alternative accessibili. A volte è meglio rinviare per un po’ e rimodellare, piuttosto che insistere. 

Per quanto questo approccio “comprensivo” possa sembrare giustificato, esso solleva tre problemi. 

 

Anzitutto, un problema antropologico e morale. Siamo davvero noi esseri umani i padroni della natura, al punto da pretendere che essa ci obbedisca? Abbiamo forse trovato l’interruttore OFF per fermare o rallentare il cambiamento climatico? La risposta di Donald Trump all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel settembre 2025 è stata rivelatrice: invece di cercare di fornire soluzioni — diverse, se necessario, come la democrazia consente — ha scelto la negazione pura e semplice del problema. Poiché il cambiamento climatico è una “truffa”, non vi è alcuna necessità di ridurre la produzione di combustibili fossili. Lungi dall’essere un segno di leadership, questa è una fuga — una forma di realismo paradossalmente fondata sulla negazione della… realtà. È la trappola del “rinviare un po’”, del “rimodellare un po’”… che spesso mina le basi solide del cambiamento. Apre la porta ai negazionisti o ai cinici che vogliono continuare a fare affari sporchi il più a lungo possibile. 

 

Per gli scienziati, non vi è dubbio che l’evoluzione del pianeta (clima e natura insieme) richieda un’azione urgente e determinata. Proprio mentre la Commissione europea e i governi nazionali stanno smantellando il Green Deal, il Rapporto 2025 dell’Agenzia europea dell’ambiente, pubblicato a fine settembre, traccia un quadro allarmante: “Si sono compiuti progressi significativi nella riduzione delle emissioni di gas serra e degli inquinanti atmosferici, ma lo stato complessivo dell’ambiente in Europa sta peggiorando, in particolare quello degli ecosistemi, che continuano a subire degrado, sfruttamento e perdita di biodiversità. Gli effetti dell’accelerazione del cambiamento climatico costituiscono anch’essi un problema urgente (...). Le prospettive per la maggior parte delle tendenze ambientali sono preoccupanti e pongono rischi significativi per la prosperità economica, la sicurezza e la qualità della vita in Europa.” L’Agenzia avverte inoltre che “il cambiamento climatico e il degrado ambientale rappresentano una minaccia diretta alla competitività dell’Europa.” 

 

I principali economisti che si occupano di sostenibilità condividono questa visione. Nel suo notevole libro Il capitale naturale (EGEA, prefazione di Valentina Bosetti) l’economista britannico Sir Partha Dasgupta (autore della Dasgupta Review on the Economics of Biodiversity per il Tesoro britannico nel 2021) dimostra come l’umanità stia esaurendo le risorse globali che sostengono agricoltura, accesso all’acqua e salute. Formula l’equazione 

 

Ny/α > G, 

 

che significa che la domanda globale — legata alla popolazione (N) e al PIL pro capite (y) corretti per la tecnologia (α) — non può superare indefinitamente il tasso di rigenerazione della natura (G), poiché la biosfera non è uno stock illimitato. 

 

In SDA Bocconi, le ricerche dei professori Francesco Perrini sulle Pmi e Stefano Pogutzsul concetto di Business in nature seguono la stessa logica. 

 

Tutti possono constatare che le ondate di calore sono più intense e più lunghe, il Mar Mediterraneo più caldo e le tempeste più violente. 

 

In secondo luogo, il rinvio solleva un problema economico crescente: i costi della trasformazione aumentano nel tempo. A settembre, lo Stockholm Resilience Centre ha annunciato che la Terra ha superato un altro “limite planetario” — il settimo dei nove esaminati: l’acidificazione degli oceani ha oltrepassato la zona di sicurezza per lo sviluppo umano. In termini più semplici, stiamo vivendo sempre più al di sopra delle possibilità della natura, con conseguenze economiche gravi, poiché gli oceani nutrono centinaia di milioni di persone, regolano il clima e coralli e alghe proteggono le coste dall’erosione. Più si ritarda, più sarà difficile avviare la transizione ed evitare conseguenze estreme come i cosiddetti disastri “naturali” — causati dall’uomo. Le compagnie assicurative, la BCE e l’EIOPA (European Insurance and Occupational Pensions Authority) si preoccupano già della questione dell’assicurabilità. 

 

Non lo affermano gli ambientalisti, ma il risultato di analisi costi-benefici. L’approccio cinese, ad esempio, è stato quello di diventare leader nella produzione di pannelli solari. Il loro metodo ha comportato in parte pratiche di dumping e la monopolizzazione delle terre rare, ma la realtà è che ora dominano questa tecnologia chiave per la decarbonizzazione. Nel campo delle turbine eoliche onshore e offshore, gli europei dispongono ancora di aziende solide, ma le incertezze sulle strategie nazionali (in Francia, per esempio) ne ostacolano la crescita. 

 

Infine, questo elogio del “realismo” pone un problema politico. Possiamo continuare a prendere decisioni all’interno di sistemi politici così miopi, così pronti a negare, così riluttanti a fondare le politiche pubbliche sull’evidenza scientifica — dove gli eletti sono prigionieri dei loro mandati e della demagogia che alimenta l’atteggiamento del “dopo di me, il diluvio”?

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