Il Meglio del Piccolo

Start-up e innovazione all'italiana

Quelle che seguono sono solo alcune considerazioni e un paio di consigli per i giovani start-upper che si trovano nelle prime fasi del loro percorso imprenditoriale.

 

1. L’argomento start-up è un argomento che piace molto (ne ho avuta l’ennesima dimostrazione al convegno nazionale dei Gruppo Giovani di Confindustria a Capri). Esso gode di buona stampa e di risalto mediatico con tutto ciò che ne consegue in termini di attenzioni e agevolazioni per le neo-nate imprese. Mi pare però di riconoscere in questo continuo plauso una sorta di pregiudizio positivo. A fronte di tanto clamore i numeri di questo fenomeno, in termini di contributo economico ed occupazionale, sono ancora da super nicchia. Abbiamo in Italia due unicorni contro i 44 del Regno Unito solo per darvi un ordine di paragone. Insomma a dispetto del “racconto” uno su un milione ce la fa. Conviene dunque riflettere su questa distanza tra annuncio e realtà, impegnandosi nel tentativo di colmare un poco il gap, a trovare una via italiana alle start-up coerente con le peculiarità del nostro DNA e del nostro sistema economico. Forse conviene evitare di scimmiottare (da perdenti) modelli d’oltre oceano, in primis Silicon Valley, che non ci appartengono e ragionare sulle caratteristiche del nostro “terreno” di gioco fatto di competenze manifatturiere e di un apparato finanziario ancora in possesso delle famiglie diversamente da quello che accade nel mondo anglosassone.

 

2. La via nostrana al fare impresa è innanzitutto quella che presuppone un concetto di innovazione aperto e plurale in cui l’ultima parola non sia per forza tecnologia. L’innovazione nelle piccole dimensioni è spesso di natura incrementale e non può essere che così date le risorse ingenti e gli investimenti enormi che sono invece alla base delle grandi scoperte. La micro imprese italiane rispondono di sovente a domande a cui i “giganti” non sono interessati o non riescono a dar seguito perché troppo specifiche. “Non si poteva fare e noi lo abbiamo fatto” questo è il tipico approccio dell’azienda microscopica. Ovviamente si tratta di un tipo di innovazione che non viene registrato dagli studi e dalle ricerche ufficiali ma non per questo non esiste o non funziona. Occorrerebbe una metrica diversa per tracciarla e documentarla caso per caso. C’è poi un secondo tipo di innovazione che ci vede interpreti d’eccezione di nuovo, direi, collegandomi alla nostra tradizione manifatturiera per ragioni ancestrali. E’ quella dell’innovazione dirompente - non a livello di nuova tecnologia - ma sul piano della qualità ovvero basare il proprio business model  sull’offerta di prodotti e di servizi davvero unici, la cui qualità oggettivamente stacca i concorrenti in modo importante e non facilmente colmabile e riproducibile. 

 

3. In ragione di quanto detto fin qua si possono dare alcuni suggerimenti ai neo-imprenditori. Siate fin dall’inizio imprenditori e non inventori. L’imprenditore forte è colui che presidia direttamente o indirettamente le tre determinanti della strategia: il prodotto, il mercato e la tecnologia. L’inventore invece approfondisce solo l’ultima. E’ lo specialista geniale che ricerca e sviluppa, che migliora di continuo senza curarsi dell’industrializzazione della sua invenzione e soprattutto senza prestare attenzione al mercato, ai clienti e ai loro bisogni. Il destino dell’inventore è ben esemplificato dalla “sindrome” di Meucci. Fu questo nostro connazionale ad inventare, alla fine dell’Ottocento, uno degli oggetti destinati a rivoluzionare i comportamenti a livello planetario: il telefono. Invenzione clamorosa che non curò adeguatamente in termini di copertura brevettuale e che gli venne portata via dalla Bell Company, società anglosassone che ne seguì sia l’industrializzazione sia la commercializzazione. Di Antonio Meucci, inventore del telefono, oggi in pochi tra i giovani ricordano il nome e tra coloro che lo hanno in mente solo una minoranza conosce la sua fine: morì poverissimo a Buenos Aires nel più totale declino. Insomma tra inventore e imprenditore passa una certa differenza.

 

4. Infine, arrivando all’ultima indicazione per giovani aspiranti “maghi”, non bisogna confondere la magia del fare impresa con le alchimie della finanza. L’imprenditore che può dirsi tale parte con una sua idea, una visione originale. E’ quasi ossessionato dal desiderio di compierla e di svilupparla, ci si identifica completamente, spesso lasciando gli studi per realizzarla. Vuole lasciare un segno del suo operato: per lui o per lei l’azienda è come un figlio da crescere ed accudire per metterlo in condizione di essere forte a sufficienza per affrontare le alterne fortune dei mercati.

Il finanziere no. Il suo approccio è un altro, fa un mestiere diverso. Avvia il business con l’idea di farlo in crescere il più in fretta possibile per venderlo cercando di realizzare una buona uscita, non ha in mente la perennità dell’azienda ma la famosa exit. Entrambi possono definirsi startupper ma il primo fa impresa e il secondo fa finanza. Il primo resta per una vita in un settore perfezionando e facendo evolvere l’idea di partenza, il secondo uscirà quanto prima dal business iniziale per entrare eventualmente con il capitale generato in altri ambiti, avendo come obbiettivo prioritario il surplus che un investimento - per dirsi buono - deve generare. Nulla di male, ovviamente, ma i due perseguono finalità diverse e questo va affermato senza moralismi, solo per chiamare le cose col proprio nome. 

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