#ValorePubblico

Annuali, mensili o settimanali? Gli obiettivi ai tempi dello smart working nella PA

Ha fatto discutere la notizia uscita su Il Messaggero del 9 ottobre su un presunto piano della Funzione Pubblica volto ad introdurre una forma di valutazione delle performance mensile, se non addirittura settimanale, per controllare il lavoro degli smart worker della PA. Anche se può sembrare una buona idea, se burocratizzata, rischia di essere un enorme boomerang.

La notizia (da confermare): pagelline settimanali per gli smart-lavoratori della PA?

Con la Legge di conversione del c.d. Decreto Rilancio del 17 luglio del 2020, è stata introdotta una nuova sezione del Piano delle Performance, chiamata POLA: Piano Organizzativo per il Lavoro Agile. In buona sostanza, ogni amministrazione ha l’obbligo di definire le misure organizzative e tecnologiche funzionali a rendere operativo il lavoro agile per il proprio personale (il target è almeno la metà dei dipendenti). Tra le misure organizzative da prevedere nel POLA, vi sono ovviamente gli strumenti di misurazione della performance per i lavoratori in smart working. Mentre lo scrivo, mi rendo conto che sembra la descrizione di un quadro di Escher: il Piano delle Performance, che contiene una sezione dedicata al Piano del Lavoro Agile, che a sua volta, contiene una sezione dedicata alla Misurazione delle Performace, etc… Ma non è questo il punto. Secondo le informazioni offerte dal Messaggero, sarebbe intenzione della Funzione Pubblica prevedere forme di valutazione delle performance individuale ed organizzativa più ravvicinate, mensili o anche settimanali. Non è chiaro se la misura sarebbe rivolta a tutto il personale o solo ai lavoratori da remoto. I commenti che ne sono seguiti mostrano una certa preoccupazione: burocrati che non vogliono essere valutati? Non è da escludere. Ma certamente, non solo.

Una, nessuna, centomila valutazioni dell’esperienza del lavoro da remoto in emergenza

Nei mesi scorsi si è a lungo discusso del caso dei dipendenti pubblici in smart working (o, più correttamente, in lavoro da remoto) e della loro produttività reale. Tra i contributi più recenti, la scorsa settimana Norme e Tributi del Lunedì dava voce a quanti dal mondo dell’impresa e delle professioni lamentano una maggiore difficoltà ad accedere a servizi pubblici con i dipendenti ancora in regime “smart”. Stesso argomento questa mattina su Il Messaggero. Come mi è già capitato di dire, il dibattito sul tema si è ormai polarizzato secondo schemi da stadio: da un lato i grandi detrattori dell’esperienza di lavoro a distanza nella PA (“hanno lavorato ancora meno di prima”, “è peggiorata l’accessibilità ai servizi”, “sarebbe stato più equo metterli in cassa integrazione”); dall’altro i grandi difensori (“non è vero che si sono fermati i servizi”, “si è lavorato di più anche fuori orario”, “è la strada su cui investire, anche a Pandemia finita”). Il tema vero è che alla domanda “com’è andata col lavoro da remoto nella PA?” non è facile dare una risposta secca, dati alla mano. Per mille motivi. Il primo lo abbiamo detto tante volte: la Pubblica Amministrazione è un’astrazione poco significa nella realtà, dove le differenze tra classi di istituti pubblici e all’interno della stessa classe ci restituisce un quadro tutt’altro che omogeneo. Il modo in cui ha funzionato il lavoro da remoto in tempi di emergenza è il frutto di tali differenze e in questo blog si è provato a rappresentare esperienze diverse. Il secondo motivo riguarda la natura dei pochi dati disponibili: le indagini ad hoc effettuate in questi mesi che ho potuto consultare sono per lo più survey sulla percezione dei lavoratori stessi, interessanti e piene di spunti per ripensare questo strumento, ma certo non esaustive del tema. Il terzo è collegato alla natura dei sistemi di performance, di cui abbiamo già parlato la scorsa settimana: possiamo dire che la misura degli impatti dello smart working di emergenza verrà fuori dal confronto delle valutazioni di performance del 2020 con quelle del 2019? Per come sono fatti i piani della performance probabilmente no. Di qui, forse, un assist a chi vuole mettere mano allo strumento.

Il rischio che vedo nell’istituzionalizzazione standardizzata della frequenza dei monitoraggi è che lo sforzo collettivo sia concentrato nell’ottemperare l’effettuazione del monitoraggio, più che nel monitoraggio stesso

Le possibili risposte: regole più stringenti o dirigenti più competenti?

Qualunque obiettivo annuale senza un monitoraggio costante rischia di essere bucato o perso di vista. Se decido di perdere peso nel giro di qualche mese, ma non salgo sulla bilancia con una certa regolarità per vedere se sono sulla strada giusta e il ritmo è costante, il rischio di non raggiungere l’obiettivo si fa maggiore. Ora, quale frequenza è quella ottimale? Ha senso definirne una che vada bene sempre e per tutti? Ecco, la stessa cosa vale per gli obiettivi di performance. Che le persone lavorino da casa o meno, se sono chiamate a svolgere attività in autonomia, il ritmo con cui monitorare lo stato di avanzamento dei loro contributi potrebbe avere delle differenze legate alla natura dei processi, alla tipologia di mansioni, al modello organizzativo e allo stile di leadership del dirigente responsabile. Il rischio che vedo nell’istituzionalizzazione standardizzata della frequenza dei monitoraggi è che lo sforzo collettivo sia concentrato nell’ottemperare l’effettuazione del monitoraggio, più che nel monitoraggio stesso. Un film che abbiamo visto mille volte all’indomani di una riforma con pretese di essere rivoluzionaria. E, in parte, abbiamo già visto in questi mesi con dipendenti impegnati più a scrivere relazioni sul lavoro svolto che a lavorare. E dirigenti subissati da cumuli di relazioni senza davvero il tempo di farsene qualcosa di interessante.

Non sarebbe più utile tenere lo sguardo sul valore pubblico generato dalle singole amministrazioni, lasciando all’autonomia gestionale dei singoli enti la libertà di trovare le soluzioni più adeguate allo scopo (quanti dipendenti in smart working e quanti in presenza, valutati come e con quale frequenza)? Sarebbe bellissimo se una volta il cambiamento venisse rivolto non già agli strumenti – in questo caso le modalità e i tempi del monitoraggio – ma sulle competenze delle persone. La vera urgenza per fare funzionare il lavoro agile nella PA (e forse non solo quello) è un massiccio investimento nelle competenze di guida, gestione ed esercizio della delega dei dirigenti pubblici, affinché siano in grado di utilizzare al meglio gli strumenti che già ci sono per assicurare che i contributi dei propri collaboratori siano allineati alle aspettative degli stakeholders, nella quantità, qualità e nei tempi. A partire dalla scoperta – questa sì potrebbe essere copernicana per qualcuno, per fortuna non per tutti – che si possono già assegnare obiettivi settimanali o mensili e non perché qualche OIV è deputato al loro monitoraggio, ma perché sono lo strumento di management con cui si assicura il funzionamento di un ufficio.

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