#ValorePubblico

Abbassare lo stipendio agli ‘Statali’ per solidarietà con chi perde il lavoro?

Succede in concomitanza con ogni crisi economica: tanto più alti sono i costi sociali generati, quanto più acquisisce consensi chi chiede di dividere il conto con “gli statali”. O, più correttamente, i dipendenti pubblici. Su cosa si basa questo refrain?  

 

Il primo argomento è il seguente: non è giusto che solo chi lavora nel privato rischi il posto di lavoro o perdite significative alla propria attività. Esiste un mondo – quello del pubblico impiego – che non conosce rischio di impresa, licenziamenti, cassa integrazione o altri impatti della crisi economica. Pertanto, una qualche forma di compartecipazione ai costi della crisi è invocata come forma di giustizia sociale. A questo argomento se ne aggiunge sovente un altro che risente della valutazione sociale del lavoro pubblico considerato covo di fannulloni. Nel presente, questo secondo argomento è intrecciato con quello della PA in smart working, rappresentanto come una forma di lunga vacanza retribuita.  Il successo diffuso di questo discorso contiene una buona notizia ed una cattiva notizia. 

La buona notizia

Può essere considerato un segno di vitalità politica la richiesta di forme di maggiore solidarietà all’interno del mondo del lavoro per rendere gli impatti della crisi meno drammatici per qualcuno, grazie al contributo di chi è meno toccato. Che le crisi possano essere veicolo di forme di discontinuità nell’ordine economico e sociale non deve sorprendere. I salariati inglesi videro migliorare stabilmente il loro potere contrattuale dopo la della Peste Nera del 300 in Inghilterra. Le donne dopo la Grande Guerra, tornate dalle fabbriche dove avevano sostituito gli uomini al fronte, rivendicarono pari diritti nella partecipazione alla vita politica ed economica. È ragionevole aspettarsi che anche questa fase storica sia caratterizzata dalla richiesta di cambiare alcune regole del gioco. Ad esempio, la crisi attuale sta mostrando l’iniquità del nostro sistema di protezione sociale tutto centrato sul lavoro dipendente stabile e poco capace di offrire tutele tempestive al lavoro autonomo, ma anche quello dipendente a termine o discontinuo, forme di impiego che pesano oltre 30% sul mondo degli attivi nel privato, il tasso più alto d’Europa. Un altro spunto è offerto dallo stesso Presidente Mattarella, che non più tardi di venerdì scorso ha invitato a considerare il risparmio una leva per la ripartenza: in un Paese come il nostro, dove i risparmi privati delle famiglie (la ricchezza immobiliare, monetaria e finanziaria) sono pari a circa il doppio del debito pubblico, il tema è certamente di attualità. Forse stupisce (o forse no) che si prendano di mira solo i dipendenti pubblici, che sono tutto sommato pochi (il 14% degli occupati), sotto la media OCSE, con stipendi al palo da tempo e ormai del tutto allineati al privato. Ma che arrivi la richiesta di riformulare il patto sociale e i principi di equità che regolano il nostro funzionamento economico e sociale è la normale fisiologia di una crisi della portata di quella che stiamo vivendo: sarebbe imprudente non leggere i segnali in tal senso o non dare risposte. 

Anni di disinvestimento economico, ma anche culturale (penso alle polemiche sui fannulloni che si sono trascinate dietro tornelli e proposte di controllo biometrico) ci hanno consegnato una pubblica amministrazione svuotata, più che snellita, invecchiata e scarsamente attrattiva per i migliori talenti, sostanzialmente depressa. 

La cattiva notizia

La richiesta di abbassare lo stipendio ai dipendenti pubblici, solo a loro (come se fossero l’unica categoria che ha avuto la possibilità di conservare un lavoro stabile) e a tutti loro (come se gli oltre 900.000 insegnanti, quasi 700.000 del comparto sanità, più di 300.000 delle forze dell’ordine non fossero dipendenti pubblici e non costituissero da soli quasi i 2/3 di tutto il mondo del lavoro pubblico) tradisce una scarsa conoscenza e considerazione di questo settore. D’altra parte, come già documentato sulle pagine di #ValorePubblico, veniamo da decenni di riforme dove il pubblico impiego è stato considerato solo una voce di spesa da tagliare: oggi possiamo vantare una spesa per stipendi sul totale della spesa pubblica più bassa della media europea (21% ITA vs. 22% EU28), ma anche modelli organizzativi obsoleti, inadeguati e competenze scarsamente allineate con le sfide del presente. Un classico esempio di come non basta tagliare la spesa per diventare più efficienti. Anni di disinvestimento economico, ma anche culturale (penso alle polemiche sui fannulloni che si sono trascinate dietro tornelli e proposte di controllo biometrico) ci hanno consegnato una pubblica amministrazione svuotata, più che snellita, invecchiata e scarsamente attrattiva per i migliori talenti, sostanzialmente depressa. La cattiva notizia è che il dibattito sul taglio dello stipendio degli statali non fa che colludere con questa postura complessiva. 

 

Servono servizi pubblici più forti ed efficaci in tempi di crisi

Come ci ha già insegnato la crisi del 2008, tanto più aumentano le fragilità sociali, quanto più abbiamo bisogno di istituzioni forti e capaci di dare risposte. In questi giorni si parla tanto del ruolo della sanità, della scuola e delle forze di sicurezza. Ma abbiamo bisogno anche di servizi di welfare territoriali capaci di leggere e dare risposte ai nuovi bisogni sociali, centri per l’impiego più strutturati e capaci di orientare chi ha perso il lavoro, un rete di servizi per le imprese – a partire dalle Camere di Commercio – capaci di aiutare il nostro tessuto produttivo a superare la fase attuale; strutture di programmazione – dal livello ministeriale a quello regionale – capaci di utilizzare al meglio le risorse della nuova programmazione europea, cui si aggiungeranno le risorse del Next Generation EU. E la lista è ancora lunga… Ed è legittima la richiesta di fondo che chi lavora in questi servizi sappia fare di più e meglio di prima. Ma come hanno argomentato i colleghi Marta Barbieri e Giovanni Valotti, è paradossale pensare di portare grandi innovazioni nei servizi se i dipendenti pubblici “protagonisti principali non sono ritenuti all’altezza”. Difficile raccogliere senza seminare in formazione e gestione del cambiamento. Difficile vedere crescere in qualità ed efficacia i nostri servizi pubblici senza nessun investimento sulle persone. A partire da una nuova narrazione.  

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