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La gestione del patrimonio abitativo pubblico: da efficienza ad equità

Oggi, nell’ambito della rassegna Italia Direzione Nord presso la Fondazione delle Stelline, si tengono gli Stati Generali della Casa. L’invito che mi è stato rivolto è occasione per riflettere sul presente e futuro delle politiche della casa pubblica.  

 

Il mio punto di osservazione è quello di chi studia il funzionamento delle aziende di gestione dell’ERP dalla prospettiva del management pubblico, ovvero di chi – per dirla in breve – si occupa non solo di problemi legati all’efficienza, ma anche all’equità.

Partiamo dall’efficienza

Dopo aver studiato in questi anni modelli diversi di gestione dell’ERP (enti pubblici economici, non economici, in-house Spa, etc: una raccolta si trova QUI) appare evidente che non ci sia da nessuna parte la formula magica. Ma solo configurazioni che redistribuiscono le risorse e i costi, i rischi e le competenze in maniera diversa tra i diversi soggetti: regione, comuni, aziende casa, utenti attuali e potenziali.

 

Ad esempio, le riforme della fine degli anni ’90 erano basate sul presupposto che fosse sufficiente dare ad un ente la proprietà (o la concessione) del patrimonio ERP perché dalla sua gestione, attraverso i soli canoni di locazione, provenissero le risorse necessarie ad assicurare un servizio di qualità (che include anche la manutenzione, la gestione del calore e quanto di collegato). Oggi quel presupposto è ampiamente contestabile: questo modello semplicemente non tiene più. Un problema di efficienza? Forse anche, ma certamente non solo. Non sono le aziende che possono decidere quale canone applicare, né possono selezionarsi l’utenza. Inoltre, il progressivo aumento delle fragilità sociali (economiche e non) tiene sempre più bassi i canoni, fa aumentare la morosità, rende più complessi i quartieri popolari. In sostanza, in quelle riforme si era confuso il rischio di impresa, che si chiedeva alle aziende-casa di assumersi, col rischio sociale, che dal 2008 cresce senza sosta.

 

Non stupisce, pertanto, che più recentemente si stia facendo largo un nuovo modello, che si basa non già sull’acquisizione del patrimonio, ma sull’offerta di un servizio di gestione ai comuni (che restano proprietari degli immobili) a fronte di un compenso pagato dai comuni stessi (e non dagli inquilini, che versano – quando li versano – i loro canoni ai comuni), al fine di liberarsi dal rischio morosità e correlati. Di fatto con questo modello si spostano rischi e costi sui Comuni, in cambio di una maggiore affidabilità e continuità della manutenzione, sorretta da altrettanta affidabilità delle entrate.

 

Quindi, non deve stupire nemmeno che questo modello trovi cittadinanza nei comuni più grandi e ricchi, come Firenze, Milano e ora anche Bergamo, mentre sia più critico per i comuni più piccoli, con finanze più incerte: si troverebbero scaricato il rischio morosità, con un canone da versare all’azienda di gestione, in più privati del gettito IMU, che soprattutto i centri più piccoli rivendicano dalle Aler (nonostante i forti dubbi di legittimità).

 

L’impressione è che il dibattito sui gestori, sulle possibili configurazioni istituzionali e sugli assetti di governance fatichi a trovare un punto di convergenza, se non si fanno prima tre cose:

  1. Trovare un criterio più affidabile per calcolare il costo per la gestione delle unità immobiliari, che includa non solo la manutenzione, ma anche la gestione amministrativa e sociale;
  2. Ripensare le politiche di formazione dei canoni di locazione – che sarebbe più igienico cominciare a chiamare tariffe, come per gli altri servizi pubblici – sulla base di una chiara e trasparente definizione dei principi di equità su cui si basano (non certo il valore di mercato dell’immobile, ma la capacità di contribuzione del nucleo ai costi di gestione);
  3. Enucleare con più trasparenza la differenza tra tariffa e costo, al fine di stabilire con chiarezza chi è chiamato a finanziare questo delta, che non è inefficienza, ma welfare abitativo: i comuni? Le regioni? Le aziende casa, grazie agli utili derivati da attività ‘non-Erp?

Senza pensare di aver risolto il problema dell’efficienza, veniamo all’equità

In passato, a nuovi bisogni abitativi insoddisfatti dal mercato si è data risposta allargando il patrimonio pubblico. Ora questo trend è finito, per ragioni legate al consumo del suolo, al costo opportunità di costruire altro dall’ERP, alla crisi degli investimenti in infrastrutture sociali. E così abbiamo un patrimonio ERP finito (anzi, in contrazione, viste le politiche di dismissione) e nuovi bisogni che pulsano e non trovano risposta. L’esito di questa configurazione è che il profilo tipico dell’utente ERP di oggi è quello che era ‘in target’ 20-30 anni fa, perché è da allora che vi abita: anziano, pensionato, ormai solo, in appartamenti più grandi e costosi del bisogno reale.

Restano fuori i nuovi poveri della casa: i giovani il cui lavoro intermittente produce reddito insufficiente a pagare un affitto, soprattutto nelle città più care, o non offre garanzie sufficienti. Peggio ancora se con minori a carico.

Tra questi, i più tagliati fuori sono gli sradicati, che non sono solo gli stranieri in senso stretto, ma anche gli immigrati da altre regioni, se privi delle reti sociali che consentono loro di trovare soluzioni locative sostenibili per canali informali. Ad esempio, trasferirsi al nord per lavorare come OOSS in ospedale, o insegnante di scuola, ma anche ricercatore all’università, rischia di diventare un sogno non più conciliabile con quello di radicarsi: vivere ragionevolmente vicino al luogo di lavoro e fare un progetto di famiglia.

Pensare che le politiche abitative debbano dare risposta anche a questi nuovi bisogni – che sia dentro o appena fuori il perimetro dell’ERP – significa pensare all’attrattività delle città non solo per chi ne fa un consumo estemporaneo, legato agli eventi, alle fiere, al turismo, ma anche per chi contribuisce alla catena del valore urbano, perché lavoratore nel comparto dei servizi. A partire da quelli pubblici. Si tratta, in sostanza, di pensare le politiche della casa come ad una leva di sviluppo economico e sociale e non più solo come ad una misura riparatoria e di contrasto alla marginalità.

 

Le grandi città del nord sono diventate tali perché luoghi di emancipazione sociale grazie alla concentrazione di straordinarie opportunità di lavoro, ma anche grazie alla solidità dei servizi pubblici a supporto della crescita, come la scuola, le università, i trasporti e, prima di tutto, sin dai primi del ‘900, la casa. Si può continuare ad essere grandi senza?

 

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