Teoria in pratica

I fattori istituzionali nelle M&A dai paesi emergenti

Non sono le maggiori tutele per gli investitori a creare valore quando le aziende delle economie in via di sviluppo acquisiscono target nei paesi avanzati

Le premesse

Sempre più spesso sulle pagine dei quotidiani si trova notizia di operazioni di acquisizioni e fusioni internazionali (cross-border merger & acquisitions) caratterizzate da un tratto distintivo: l’azienda acquirente è basata in un’economia emergente, l’acquisita (o target) in un paese sviluppato.


A livello macro, una delle differenze principali tra le economie emergenti e quelle sviluppate riguarda il livello di complessità e articolazione dei fattori istituzionali: nei paesi avanzati, il corpus di norme in materia di corporate governance introdotte a protezione degli investitori è generalmente più avanzato.


Iniziare a operare in un contesto caratterizzato da regole e istituzioni più sviluppate potrebbe rappresentare di per sé, per un’azienda localizzata in un paese emergente, un fattore di creazione di valore: potrebbe contribuire a mitigare le preoccupazioni degli investitori, innescare una sorta di «rincorsa» (catch-up) sul piano istituzionale e configurarsi come una strategia di diversificazione del rischio. Concretamente, le operazioni di internazionalizzazione in paesi più avanzati potrebbero quindi essere premiate dal mercato azionario domestico e determinare un rendimento superiore alla media per l’azienda acquirente.

La ricerca

Per verificare l’impatto di un’acquisizione in un paese sviluppato da parte di un’azienda basata in un paese emergente, è stato analizzato un campione di 271 operazioni di M&A condotte da aziende dei paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) in paesi avanzati (facenti parte tanto dei paesi ad alto reddito OCSE quanto dei paesi sviluppati FMI) tra il gennaio 1997 e il marzo 2012. La scelta è ricaduta sui paesi BRICS per disporre di un campione omogeneo: essi rappresentano un blocco coeso di economie emergenti, con livelli di sviluppo economico e finanziario simili fra loro e avviatisi verso un pieno capitalismo nei primi anni Novanta.


Nello studio, sono state considerate le operazioni in cui l’azienda acquirente è entrata in controllo di una quota di equity dell’azienda target pari ad almeno il 30 per cento. Per valutare le dinamiche di creazione di valore associate all’operazione, sono stati analizzati i rendimenti azionari relativi alla quotazione dell’azienda acquirente in una finestra temporale pari ai cinque giorni precedenti e successivi all’annuncio del deal.


Per valutare i fattori istituzionali a tutela degli investitori nei paesi delle aziende target, sono stati utilizzati due diversi indicatori: l’indice anti-self-dealing (relativo cioè alle misure volte a limitare la possibilità per gli azionisti in posizione dominante di sfruttare tale posizione per ricavarne benefici privati) e quello degli antidirector rights (che riguarda le norme che tutelano gli investitori rispetto a possibili comportamenti opportunistici da parte del management aziendale). È stata inoltre inclusa una serie di variabili di controllo relative alle caratteristiche del settore, dell’impresa acquirente, del deal e alla distanza culturale tra l’impresa acquirente e l’impresa target.


Le operazioni analizzate hanno un valore medio di circa 210 milioni di euro, mentre quello mediano si aggira attorno a 20,5 milioni di euro, a testimonianza di una notevole variazione tra deal e deal. Nel complesso le aziende target sono prevalentemente imprese di dimensione medio-piccola. I paesi target sono stati principalmente Stati Uniti, Regno Unito e Australia, mentre quasi tre quarti delle acquirenti sono localizzate in India e Sudafrica: ciò anche a causa della minore diffusione della quotazione tra le aziende cinesi e russe. Le acquisizioni sono volte più a rafforzare le competenze core dell’acquirente che a diversificarne il business: i settori di attività delle aziende target sono infatti nella maggioranza dei casi correlati a quello dell’acquirente – principalmente industrie manifatturiere, alimentari ed estrattive, con l’eccezione delle imprese indiane, particolarmente attive nei settori IT e farmaceutico. Infine, oltre tre quarti delle acquisizioni hanno visto il prevalere di mezzi di pagamento cash rispetto a quelli equity.


L’analisi dei rendimenti azionari nei giorni attorno all’annuncio conferma un impatto positivo del deal in corso sulla valutazione dell’azienda acquirente, ma di entità piuttosto ridotta. Le variabili che incidono in maniera significativa sui rendimenti sono la capitalizzazione azionaria dell’acquirente (con un impatto negativo), lo status di quotata dell’azienda target (con un impatto negativo) e la dimensione relativa del deal rispetto alla capitalizzazione dell’acquirente (con un impatto positivo).


Al contrario, non sembra esserci una creazione di valore di alcun genere determinata di per sé dalla presenza di standard di governance migliori nei paesi di destinazione delle acquisizioni: né per quel che riguarda la legislazione volta a prevenire potenziali abusi da parte degli azionisti in posizione dominante, né per quel che riguarda le norme a tutela dei diritti degli azionisti. Ugualmente irrilevante è l’impatto sui rendimenti della maggiore o minore distanza culturale tra azienda acquirente e acquisita.

Conclusioni e implicazioni

Nel caso delle acquisizioni in paesi sviluppati da parte di aziende dei paesi BRICS, i fattori istituzionali più avanzati nel contesto target non creano di per sé valore. Altri studi basati su campioni differenti di economie emergenti sembrano suggerire il contrario: è quindi la scelta dei paesi di analisi a determinare la rilevanza o meno di questi fattori macro.


Ad avere un impatto sui rendimenti azionari legati al deal ci sono invece senz’altro fattori micro: sia legati alle caratteristiche specifiche del deal (dimensione relativa dell’operazione rispetto alla capitalizzazione dell’acquirente) sia a quelle delle imprese coinvolte (status di quotata della target e capitalizzazione azionaria dell’acquirente).


Mantenendo il focus su fattori allo stesso tempo micro e di governance, ci si può chiedere se la presenza di consiglieri indipendenti e di una maggiore o minore tutela dei diritti degli azionisti nella singola azienda acquirente influiscano sui rendimenti di questo tipo di deal.


Resta da indagare il ruolo degli advisor: che tipo di advisor, a livello di prestigio, nazionalità e fee corrisposte, viene coinvolto nelle acquisizioni condotte da aziende di paesi emergenti? Quali sono le differenze rispetto ai paesi sviluppati, quale l’impatto sulla creazione di valore? È una questione che potrebbe avere importanti risvolti concreti: le M&A dalle economie emergenti, infatti, si caratterizzano in media per offerte più elevate, e quindi per il rischio di un’estrazione eccessiva di valore dal deal.

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