Sotto la lente

Il lato oscuro dell’eccellenza

Mai come oggi l’eccellenza è celebrata all’interno del dibattito pubblico economico e imprenditoriale. Esperti e commentatori di vario genere ne proclamano la necessità e i benefici riferendosi sia al sistema Paese sia alle singole organizzazioni, siano esse pubbliche o private. Ora, è innegabile che l’eccellenza sia un obiettivo e un’ambizione da perseguire, ma credo sia utile a un dibattito serio porre in evidenza alcuni rischi in cui si può incorrere e che bisognerebbe evitare.

 

Innanzitutto, cosa vuol dire eccellere? Chi stabilisce se un prodotto, un’azienda, un’istituzione, sono eccellenti o meno? Eccellere significa essere riconosciuti come tali all’interno del proprio mercato di riferimento – o del proprio ambiente istituzionale – sia dai clienti sia dai concorrenti, o dagli attori di quello stesso ambiente. Quindi la patente di eccellenza non ce la si può dare da soli né può essere attribuita da un ente certificatore. L’eccellenza va dimostrata dai fatti e va riconosciuta da coloro che ne acquistano i frutti o che, a loro volta, cercano di imitarne i risultati: per esempio i clienti riconoscono l’eccellenza associando all’organizzazione una particolare reputazione e dimostrando disponibilità a pagare un extra-prezzo per i suoi prodotti e servizi; i concorrenti e gli altri attori del sistema riconoscono l’eccellenza tentando di imitare l’organizzazione, i suoi prodotti, i suoi processi, le sue pratiche manageriali. Se mancano questi due presupposti, temo che l’auto-certificazione di eccellenza non possa esser un valido sostituto. In ogni caso, c’è bisogno di tempo per essere riconosciuti eccellenti.

 

Per comprendere dove si annidano i rischi, è utile secondo me ricordare che l’eccellenza è frutto di un processo che prevede tre momenti. Il primo è quello della «nascita», dell’origine. A seconda dell’ambito in cui si è riconosciuti eccellenti c’è un inizio dovuto a un’innovazione, a un rinnovamento, a un cambiamento organizzativo che permette di innescare un percorso distintivo. Il secondo momento è quello del «riconoscimento», di cui dicevo prima. Quando all’interno di un mercato o di un ambiente istituzionale gli altri attori dimostrano coi propri comportamenti (comprando, imitando, dichiarando pubblicamente) che un attore del sistema è un punto di riferimento per l’eccellenza, allora quest’ultima viene riconosciuta pubblicamente. Il terzo momento è quando l’eccellenza riconosciuta si consolida fino al punto da diventare un canone, uno standard all’interno di quell’ambiente. Si raggiunge così un livello di «istituzionalizzazione» dell’eccellenza.

 

A questo punto, inizia a essere considerata come un dato di fatto da parte dell’organizzazione e del suo management. Se tale status è certamente un indice di successo consolidato e diffuso, presenta però anche un lato oscuro, e a questo punto emergono due potenziali grossi rischi.

 

Il primo rischio riguarda l’inerzia cognitiva, intesa come la standardizzazione di determinati processi o la reiterazione di modelli o idee. In questo scenario, l’eccellenza acquisita diventa l’unico punto di vista da cui si osserva l’ambiente di mercato; un mercato che, tuttavia, evolve a prescindere dall’osservatore e dal punto di osservazione, con il rischio di rendere obsoleta quella visione. Questa cecità nei confronti del cambiamento, questa incapacità di considerare la diversità di opinioni, riduce la creatività e la visione sul futuro. In molti settori, le imprese eccellenti del made in Italy non si sono accorte dell’emergere di nuovi concorrenti provenienti da Paesi ritenuti marginali (per esempio i produttori del Nuovo Mondo nel vino, i produttori asiatici nella meccanica) o di nuovi attori rilevanti nel mercato (per esempio gli e-retailer nella moda e nel design), che hanno costruito una posizione consolidata nel mercato proprio a causa di questa distrazione delle organizzazioni eccellenti.

 

La «distrazione da eccellenza» può essere ricondotta al vecchio adagio del «pensare fuori dagli schemi» (out of the box): l’eccellenza, nella sua parabola distorsiva, restringe la visione all’interno del box, impedendo di recepire gli stimoli che giungono dall’esterno. Gli schemi preconcetti e i propri schemi mentali di riferimento restringono la visuale, e il box si trasforma in una vera e propria prigione del pensiero. Hic sunt leones: le terre inesplorate al di là dei propri orizzonti non interessano più, ci si appiattisce sul già fatto, il già detto, il già pensato. In questo circolo vizioso, l’eccellenza non pensa che a replicare acriticamente se stessa.

 

Il secondo rischio, strettamente correlato al primo, riguarda gli effetti emotivi dell’eccellenza. Questi provocano infatti un certo senso di rilassatezza nell’organizzazione: ci si richiude nella propria comfort zone, in uno spazio di autocompiacimento che impedisce di percepire gli impulsi esterni. Anche in questo caso, il rischio è di perdere contatto con il proprio mondo, allontanandosi da un mercato in continua trasformazione.

 

Ergo, l’eccellenza non va assunta come un dato acquisito una volta per tutte, ma necessita di essere ripensata e sfidata continuamente. Le organizzazioni devono osservarsi da altri punti di vista, interrogandosi continuamente sul proprio operato: in che modo sta evolvendo il mio mercato di riferimento? Quali sono gli attori nuovi, emergenti? Qual è la mia immagine attuale? Come sta cambiando? Sono queste alcune delle domande che ogni organizzazione e ogni leader dovrebbero porsi per iniziare a guardare oltre le proprie scelte di comodo, adottando differenti prospettive, per esempio quelle dei propri fornitori o dei propri clienti.

 

I manager e le organizzazioni lungimiranti devono avere la forza e l’umiltà di avventurarsi al di fuori degli spazi conosciuti, sperimentando nuove idee e nuove soluzioni per il futuro. Per far questo potrebbe essere utile esplorare nuovi mercati, nuovi target demografici per i propri prodotti, nuove soluzioni organizzative. Questo costringerebbe a testare concretamente la propria eccellenza, e magari ad alimentarla. Al riguardo, tre casi che ritengo esemplari sono quelli di Brunello Cucinelli, Loccioni e Campari, tre aziende eccellenti in competenze e settori molto diversi. Brunello Cucinelli, eccellenza nella qualità dei tessuti e nell’artigianalità dei processi produttivi, qualche anno fa ha lanciato il progetto di Fabbrica Contemporanea in cui le tecnologie digitali esaltano e rinnovano l’artigianalità rendendola appunto contemporanea. Loccioni, eccellenza nelle competenze tecnologiche nei sistemi di misurazione e controllo, ha ridefinito completamente i modelli e gli spazi di lavoro per garantirsi il contributo creativo della sua risorsa più preziosa, i suoi dipendenti. Da ultimo Campari, eccellenza nei processi di brand management e di gestione delle relazioni coi canali distributivi, ha investito in una partecipazione rilevante in Tannico, enoteca online di grande successo, per apprendere le modalità di gestione di un canale nuovo, in modo da rinnovare e rinforzare le sue competenze distintive.

 

Insomma, oltre che compiacersi della propria eccellenza bisognerebbe dedicare del tempo anche a sfidarla.

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